La certosa dell'arte

Sofia Silva
A Parma un immerso archivio conserva la storia della cultura visiva italiana. E la pace dello spirito. Dai modelli di Sottsass ai disegni di Sironi, dagli abiti di Walter Albini, alle fotografie di Guidi e Ghirri. Un viaggio nel patrimonio artistico.

Avete letto il misterioso articolo?

Avete visto come, fedele alla sua poetica, Emilio Isgrò mi ha cancellata in esclusiva per il Foglio? Bè, che devo dire, ho scoperto che mi piace essere cancellata, mi piace tantissimo, ogni parola velata è in realtà svelata nella sua profonda intimità, è un fremito di gioia, una liberazione lieve, conquistata per delega. Isgrò ha seguito le mie tracce stampandole in un nuovo avventuroso destino, io, in un’afosa giornata seguo le tracce di Isgrò fino allo Csac dell’Università degli Studi di Parma, ovvero il Centro Studi e Archivio della Comunicazione. Non è stato facile, l’avevo confusa con l’altra Certosa, quella di San Gerolamo, che ora è sede della polizia giudiziaria. Devo confessare che ero rimasta affascinata da quel pasticcio di chiesa e penitenza, ma la seconda Certosa è ancor più attraente, per le opere d’arte che rinchiude in sé e per essere probabilmente – tutto è il suo contrario nell’arte di Stendhal – la Certosa che lo ispirò, l’ultimo esilio di Fabrizio del Dongo. Vero o non vero, l’idea di camminare sui passi di Stendhal dà qualche brivido.

 

La Certosa o abbazia che dir si voglia ora è un archivio immenso, composto da numerosissime donazioni d’artista e acquisizioni di fondi, e contenente, sarò precisa, 1.700 dipinti, 300 sculture, 17.000 disegni di oltre 200 artisti, 7.000 bozzetti di manifesti, 2.000 manifesti cinematografici, 14.000 disegni di satira… Non finirei più se elencassi tutto quello che lo Csac contiene, ma potrei riassumerla così: lo Csac è casa per migliaia tra le più preziose gemme della storia della cultura visiva italiana, specie di quella che va dalla fine degli anni Sessanta a oggi. La maestosa abbazia di Valserena ha una storia antica, gloriosa, e avventurosa: monastero cistercense fu abitato dai monaci fino alla napoleonica cancellazione, assai meno artistica di quella di Isgrò. In seguito, mi racconta Francesca Zanella, presidente dello Csac, venne utilizzata per vari impieghi fino agli anni Ottanta: “Era fabbrica di conserve, ricovero di attrezzi agricoli, era molto abitato questo luogo, gremito di famiglie”. Cerco di immaginare le tre lunghe navate percorse dal traffico quotidiano della gente del luogo, ma mi riesce difficile perché ora, tirate a lucido, ospitano alcuni tra i più rappresentativi elementi dell’archivio, allestiti cappella dopo cappella, abside dopo abside, secondo una curatela raffinatissima, capace di far concorrenza a quella dei più eleganti musei. E di cancello in cancello io seguo lui e lui segue me: eccolo lì Isgrò, in cima a una parete dedicata alla storia delle esposizioni; la mostra in cui fu chiamato a esporre s’intitola Della Falsità e fu progettata da Arturo Carlo Quintavalle, il fondatore dell’archivio, nel 1973. Il nome di Isgrò appare accanto alla perentoria sigla: “Proletarismo e dittatura della poesia”, altri tempi, mi viene da sorridere.

 

Descrivere l’archivio è pressoché impossibile, contiene di tutto, modelli di Sottsass, disegni di Sironi, gli abiti di Walter Albini, fotografie su fotografie di Guidi e Ghirri… Posso dire su cosa si è soffermato il mio occhio, a cominciare dai pungenti disegni di Vincino per Il Male, anni 1978-79. “Giugno X° E.C. B. Crassi balla il liscio”.  “Aprile XVII° E.C. B. Craxi si allea con la Cina e la Baviera contro l’egemonismo sovietico e il plutoimperialismo americano cicicici iaiaiaia grunfgrunfgrunf”.

 

Nel corso dei Settanta lo Csac lavorò in collaborazione con il MoMA di New York, le prime mostre furono dedicate all’opera di Lee Friedlander, della New Photography e della Farm Security Administration, ovvero il gruppo di fotografi che negli anni del New Deal fu spedito per le praterie e i deserti di un’America ancora sconosciuta con l’obbiettivo di documentarne fatiche e povertà, orgoglio e ostinazione. Ne uscì il primo glorioso ritratto corale della nazione americana. Di questo contatto primigenio tra lo Csac di Quintavalle e l’America da Great American Novel si respira ancora tutta l’atmosfera nell’odierno Csac che, restando fedele alla propria natura d’archivio, sembra quasi applicare la vis documentaristica americana all’Italia, senza tener conto per una volta tanto dell’anima municipale, regionale, dialettale del paese. Insomma, allo Csac, al fresco dell’abbazia, più che in qualsiasi altro posto, mi è sembrato di scorgere un’Italia coerente, lineare, asciutta, un paese del tutto comprensibile, dove la via Emilia è la Postumia che è l’Appia che è la Capua, nessuna laterale, nessuna parallela, nessun vicoletto. Seduta vicino a uno degli alberi che ombreggiano i tavoli del bistrot contemplo la Certosa; dopo secoli passati ad ascoltare gli svelti passi dei monaci e, chissà, forse anche il mormorìo di Stendhal mentre prendeva appunti per il suo capolavoro, l’abbazia si è dimostrata pronta per ritrarre un’Italia di arte, moda, design e architettura pacifica, purificata, silenziosa.

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