Un’illustrazione di Leopoldo Metlicovitz per “Madama Butterfly”. Illica e Giacosa fanno del personaggio un’eroina dell’amore disinteressato, e anche una martire dell’amore cristiano

Alla faccia di Pinkerton

Fabiana Giacomotti

Un rozzo femminicida in pectore nella prima “Butterfly”. Vista alla Scala con una giapponese al fianco

Nel linguaggio dei sensali, di tutto il mondo e di tutte le epoche, il matrimonio è espressione usata sia per proporre un legittimo coniugio a tempo possibilmente indeterminato sia per siglare un rapporto sessuale di un’ora. “Allora, lo facciamo questo matrimonio?”, strizzavano l’occhio i collaboratori della “madama”, la maitresse, ai giovani che facevano flanella in salotto senza decidersi a portare in camera una delle ragazze profumate e discinte. Non credo che Luigi Illica e Giuseppe Giacosa lo ignorassero, come tutti gli Scapigliati e gli uomini della loro epoca usi ai casini e come, fra l’altro, si ritrova ancora in una nota de “Il provinciale” di Giorgio Bocca, che racconta fatti e modi di bordello di cinque decenni successivi a quelli in cui i librettisti di Puccini misero mano al testo di “Madama Butterfly”. Non lo ignoravano affatto, e ce lo conferma questa prima versione dell’opera di Giacomo Puccini messa in scena per la prima della Scala del 2016, centododici anni dopo il debutto durante il quale venne sonoramente fischiata, ritirata dalle scene e successivamente riproposta con diverse varianti e due diverse stesure riconosciute, quella di Brescia e soprattutto quella di Parigi del 1906, quella che tutti conoscevamo fino a oggi.

Questa prima versione, che a noi signori e soprattutto signore di epoca politicamente corretta offre l’opportunità di un sapido crogiolarci nelle nostre iniquità passate e che taluni hanno definito “moderna”, ci restituisce un Benjamin Franklin Pinkerton rozzo, grezzo, un femminicida in pectore che uccide la sua “piccina mogliettina olezzo di verbena” con la forza dell’abbandono e dell’oblio, ma in realtà narra una vicenda di prassi per l’epoca, solitamente priva di epiloghi tragici, come tutti sapevano e nella quale, non a caso, Illica e Giacosa furono costretti a inserire delle forzature, culturali e sentimentali, atte a muovere il pubblico a compassione oltre i fischi del debutto. Il matrimonio a tempo, di un mese, di un’ora, era faccenda maschile su cui le mogli occidentali tardo vittoriane chiudevano gli occhi (madame Paul Gauguin, per esempio) e senza nemmeno doversi sforzare nella “pietà” esibita da Kate Pinkerton, moglie americana effettiva, con la sua goffa acconciatura e le maniche a cosciotto d’agnello. Se andiamo riscoprendo questa prima versione adesso, musicalmente meno interessante delle successive al di là delle ansie filologiche del direttore Riccardo Chailly, è perché, temo, siamo in fase di revisione storica profonda, sentita e trasversale. Conoscete la solfa: il colonialismo è alle origini dei nostri guai di oggi, e gli uomini sono tutti stronzi (a Milano, poi, stronzissimi: ho letto da qualche parte di recente che noi signore milanesi ce l’avremmo con i nostri mariti, amici, amanti più di qualunque altra donna italiana, benché me ne sfuggano le ragioni: forse si tratterà di rivalità professionale, forse di pretesa sessuale insoddisfatta a causa di un eccessivo impegno nel lavoro; davvero non ne sono sicura).

Leggere le prime righe della “Madame Chrisanthème” dello scrittore-marinaio Pierre Loti, primigenia fonte dell’opera attraverso il dramma di David Belasco di cui Puccini si era invaghito dopo averla vista in scena a Londra, equivale ad ascoltare il dialogo fra Pinkerton e Sharpless del primo atto, che questa messinscena ben evidenzia, quando fa sedere il maschio-mascalzone occidentale e il suo manutengolo per dovere di patria e solidarietà fra uomini, comodi in poltrona a guardare foto di casette di legno e carta di riso da affittare per novecentonovantanove anni con diritto di recesso mensile e ragazze da sposare alle stesse condizioni: “In mare, attorno alle due del mattino, in una notte calma, sotto un cielo pieno di stelle. Yves stava vicino a me sul cassero, e discorrevamo del paese assolutamente nuovo per tutti e due dove ci conducevano questa volta i casi del nostro destino. Dovevamo approdare il giorno seguente. Quell’attesa ci divertiva, e andavamo formando mille progetti. ‘Io – dicevo – appena arrivato mi ammoglierò’. ‘Ah’ disse Yves colla sua aria indifferente, da uomo che non si sorprende più di nulla. ‘Sì, con una donnina dalla pelle gialla, dai capelli neri, dagli occhi di gatto. La sceglierò carina. Non sarà più alta di una bambola. Tu avrai una camera in casa nostra. Sarà una casa di carta, all’ombra, in mezzo ai giardini verdi. Voglio che tutto sia fiorito, intorno. Abiteremo fra i fiori, e ogni mattina la casa verrà empita di mazzi, mazzi come non ne hai mai visti’…”. Yves e Pierre sono due ufficiali stanchi di vivere senza un luogo fisso, una casa, degli affetti. “Per troppa solitudine, ero giunto a desiderare quel matrimonio”.

Eccolo, lo “yankee vagabondo”, che è francese ma poco cambia, perché nel prosieguo del romanzo c’è già tutto, a dispetto degli affanni che tanti Pinkerton, reali e contemporanei, si sono dati per rintracciare origini nipponiche fra i propri avi con la stessa ostinazione di Cio Cio San nel cercare realtà e dedizione in un matrimonio burletta, in una fiction: la fanciulla di buona famiglia decaduta, che a occhi occidentali rappresenta un’adolescente ma per quelli locali sta già superando l’età dell’attrazione (“son già vecchia”), che si vede costretta al matrimonio per uscire almeno temporaneamente dal sistema delle Case da tè e iniziare ad accumulare una piccola dote con cui prendersi in seguito un ricco vedovo grazie alla mediazione del nakodo, il sensale. Nel romanzo di Loti c’è il matrimonio chiassoso, volgare, beone, con le parenti nipponiche di Madama Crisantemo che si prendono gioco del marinaio francese forse più di quanto lui cerchi di fare con loro. Non manca la casetta mobile ed evanescente, e il tutto è a termine come previsto dal contratto immobiliare e matrimoniale. Una rappresentazione ben interpretata da ciascuno a scopo di scambio, sessuale ed economico, e se ci scappa del sentimento meglio per tutti. Nel racconto l’abbandono è postulato, e alla fine quasi più sofferto da parte di Pierre di quanto lo sia per Madama Crisantemo, che mai pensa davvero di partire alla volta della Francia, come peraltro pochissime geishe si aspettavano di diventare mogli riconosciute del danna, il loro protettore nipponico.

Le poche a cui il colpo riusciva entravano nella leggenda. Le altre si accontentavano del ruolo, non troppo dissimile in occidente, della mantenuta. Se l’opera di Puccini, uomo malinconico perseguitato dai fantasmi delle donne amate o anche solo accusate di averlo sedotto dalla compagna Elvira, gelosa e irragionevole, è comunque la si voglia mettere un pugno nello stomaco, una “madame Bovary c’est moi”, la Madama Crisantemo della fonte non si uccide affatto e, come mi dice in attesa che si apra il sipario sulla prima di “Madama Butterfly” la giovane signora giapponese in kimono e acconciatura di fiori di seta che ho trovato già seduta composta nel palco, “non mi sarei uccisa neanche io”. E’ una collega dell’Università di Nagasaki (“la stessa città di Cio Cio San”, puntualizza; nel secondo atto mi farà notare che l’immagine del porto riprodotta sul palco con tanto apparente sforzo filologico da Alvis Hermanis e Leila Fteita per il ritorno di Pinkerton “in realtà non rappresenta Nagasaki ma Hiroshima”). Marina Hayashikawa, dove Marina è la trascrizione occidentale di un complicato ideogramma, un po’ come Farfalla per Cio Cio, è professore associato di Rendicontazione e bilancio presso la facoltà di Economia, e sta lavorando a un progetto di cromoterapia “da inserire nei testi e nella comunicazione finanziaria, che a mio giudizio è troppo noiosa e uniforme, soprattutto in Giappone, non trovi?”.

Mentre mi torna alla mente un tragicomico incontro di qualche anno fa nella sede centrale della Nomura, a Tokyo, dove mi presentai senza biglietto da visita e nell’evidenza del mio genere femminile, due sfortunati accidenti a causa dei quali i miei interlocutori, che forse si aspettavano Pinkerton redivivo, rivolsero le domande riservate a me esclusivamente a mio marito e attraverso l’interprete, senza mai guardarmi una sola volta negli occhi, trovo il tempo per levarmi due dubbi sull’opera che non dico tormentino le mie notti, ma che insomma mi farebbe piacere sciogliere attraverso un punto di vista sicuramente diverso dal mio e della cultura dalla quale provengo. Della sfortunata vicenda di Cio Cio San, che a Nagasaki ha una statua a lei dedicata come la Sirenetta di Hans Christian Andersen nel porto di Copenhagen (entrambe scrutano l’orizzonte), Marina conosce infatti ogni versione: ha assistito alle sue rappresentazioni ovunque nel mondo, e molto all’Opera di Roma, che chiama “Teatro Costanzi”, filologica pure lei. Per quel poco che conosco del Giappone e della sua cultura, mi balza infatti agli occhi una forzatura clamorosa di matrice culturale e religiosa occidentale. Illica e Giacosa rendono inevitabile il suicidio di Madama Butterfly non solo per il suo amore ferito, ma per una questione di onore: ripudiata dalla propria famiglia, abbandonata da Pinkerton, rimasta sola con un bambino piccolo, umiliata all’idea di tornare a intrattenere gli uomini con canti e balli, o costretta a mendicare, Cio Cio San non trova altra soluzione se non quella di togliersi la vita. Fa parte della casta dei samurai, le cui donne, se cadute in disgrazia, si tagliano la gola nel seppuku, il rito che noi occidentali chiamiamo harakiri (in proposito, volendo, andrebbero letti i racconti contenuti nel “Makura no Sÿshi”, scritto nel 1005 da una dama della corte dell’imperatrice Teishi, che contiene uno degli incipit più famosi della letteratura giapponese: “L’aurora a primavera: si rischiara il cielo sulle cime delle montagne, sempre più luminoso, e nuvole rosa si accavallano snelle e leggere”).

Eppure, povera in canna e priva di protezione perché il suo stesso padre ha dovuto fare seppuku per ordine del Mikado, Madama Butterfly accetta più che coscientemente di sposare pro tempore Pinkerton (“pensavo. Se qualcuno mi volesse lo sposerei per qualche tempo”) e di abbandonare la propria religione. E nessuno, ma proprio nessuno, alla festa di matrimonio si cura di appurare i suoi gesti prima dell’arrivo dello zio bonzo che la maledice per aver abbandonato “il culto antico”: né la sua vera famiglia, madre compresa che assiste soddisfatta a quella bella combinazione matrimoniale, né quella allargata, le “zie” e le “ziette” che poi sono le proprietarie e le “sorelle” della casa del tè. Tutti cantano, bevono alla salute della sposa e spettegolano sul suo certo, prossimo divorzio dal “barbaro americano”, così come Pinkerton, nella versione del 1904 andata in scena per la seconda volta mercoledì, non si preoccupa di esprimere ad alta voce tutto il proprio disprezzo per quei “mangiatori di mosche candite”. Ma perché la stessa famiglia che l’ha spinta a combinare quelle nozze da commedia la ripudia? Davvero e solo perché lei, per aderire meglio al prototipo della sposa di un cittadino americano, ha abbandonato la propria religione per abbracciare quella cristiana (“kami sarundasico”, il ridicolo anatema nippo-fonetico che le lancia lo zio bonzo)? Nel 1871, in Giappone era stata introdotta la libertà di culto, “e nessuna donna sarebbe stata allontanata dalla propria famiglia per aver abbracciato la religione del marito”, mi spiega Marina con un sorrisetto. Tanto meno se, per tacito comune accordo, quel matrimonio fosse stato a tempo.

Illica e Giacosa fanno dunque di Madama Butterfly un’eroina dell’amore disinteressato, e anche una martire dell’amore cristiano santificato che peraltro, in Giappone, aveva lasciato per secoli un buon numero di martiri. Noi, oggi, nell’opera vediamo altro che ci garba, tutto quel japonisme così elegante e così falso (“Giappone: tutto è di porcellana”, scrive quel perfido di Flaubert del suo “Dizionario dei luoghi comuni”) e molto che ci dà fastidio. Di certo, non solo quel Pinkerton che non era personaggio gradevole nemmeno all’inizio del secolo scorso, ma che di sicuro non sarebbe stato preso a calci dalla propria moglie per essersi preso qualche mese di svago con una sposa bambina come accadrebbe fra le spose americane di adesso. Non a caso, quella che ci sta più sui piedi ancora più di quel cialtrone di ufficiale della marina di Perry è Kate con le maniche a cosciotto d’agnello che cerca di portarsi via il bambino di un’altra. “Che opera stupenda”, mi dice Marina, improvvisamente in buon italiano, alzandosi mentre Cio Cio resta stesa sul tatami con la gola squarciata. Mi complimento. “Sto cercando di imparare la vostra lingua. Ha un’armonia fonetica unica per esprimere i sentimenti”. Le chiedo come mai lei non si sarebbe suicidata: “Ma io non sono nobile”. E se ne va facendo ondeggiare l’obi.

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