Henri Fantin-Latour, autoritratto, 1861

Fantin-Latour e il rigore dei fiori

Marina Valensise
Intransigente e solitario, moderno suo malgrado, il pittore dipingeva nature morte e amici. E tanti autoritratti. La passione ossessiva di un idealista: 150 opere, tra dipinti, disegni e fotografie, in mostra al Museo del Luxembourg a Parigi.

Il volto è preso di tre quarti, su uno sfondo azzurro, il pizzetto rossastro, i capelli lunghi e biondastri. Il pittore fissa lo spettatore oltre la tela con uno sguardo velato, pieno di incertezza e di malinconia. Fra i tanti autoritratti di Henri Fantin-Latour, in mostra a Parigi al Museo del Luxembourg, quello del 1860, oggi alla Tate Gallery, è un piccolo dipinto di 30 centimetri per 25. L’artista lo dipinse a ventiquattro anni. Era nato a Grenoble, ma da quando ne aveva cinque si era trasferito a Parigi con la famiglia, in un appartamento a Saint Germain des Prés, in rue du Dragon, e viveva asservito a una severa disciplina in nome dell’arte e di un ideale superiore, imposto dal padre, anch’egli pittore e maestro di disegno. L’autoritratto dell’anno precedente, oggi al Musée des Beaux Arts di Bordeaux, è molto più scuro, asfittico, tenebroso. HFL vi si ritrae di fronte, la barba rossa, i capelli lisci e lunghi un po’ in disordine, le linee del volto confuse con quelle della parete, come se fossero un tutt’uno, come se la personalità dell’individuo non fosse che una continuazione degli arredi, una presenza muta, silenziosa, impenetrabile come le imposte di una finestra.

 

La bella retrospettiva parigina “Fantin-Latour à fleur de peau”, aperta fino al 12 febbraio, espone fra le centocinquanta opere in mostra (quadri, litografie, disegni e fotografie) anche l’autoritratto più famoso di HFL, quello che il pittore tenne con sé fino alla morte nel 1904, e che la vedova Victoria Dubourg, grande regista della sua fama postuma, donò al Museo di Grenoble. L’artista in posa appare fermo, ieratico, chiuso in se stesso. Spicca con la camicia bianca su un fondo nero, tenendo un pennello in mano. E dallo sguardo assorto, sospeso, quasi incredulo, sembra che l’ambizione sia offuscata dal dubbio, minata dall’incertezza. Per trovare un po’ di luce e la determinazione feroce del giovane solitario, marginale e ribelle, bisogna aspettare l’autoritratto del 1861, oggi alla National Gallery di Washington. HFL qui ha la testa leggermente abbassata, gli occhi duri che guardano oltre il vuoto, le sopracciglia marcate, e la rossa chioma leonina prende ancora più risalto dal fondo verdino, per tradurre lo sforzo, l’agonismo, la forma quasi mistica di intransigenza con cui era diventato famoso nel perseguire il suo ideale. “Di buon ora, si era imposto una disciplina severa, sacrificando tutti i sogni e le ambizioni della giovinezza, per organizzare la sua vita e stabilire il suo ideale artistico (…) – scrisse di lui Léonce Bénedicte – E sino all’ultimo restò fedele agli impegni assunti nei confronti di se stesso”.

 



Henri Fantin-Latour, natura morta


 

Difficile trovare un’immagine più congeniale a quel ragazzo prodigio, figlio di un padre esigente, quell’idealista che sognava di sfuggire con l’arte e grazie all’arte dal mondo mediocre, e nutriva la sua vocazione di passione ossessiva. “Resto da solo, lavoro molto per me, trovo una certa consolazione nel ritrovarmi in disparte a fare quadri per me, fuori dal mondo, senza che nessuno li veda. Ho fatto già dodici studi: autoritratti, teste, busti, in piedi. Mi sono liberato di tutto ciò che ho visto o ho studiato”, scriveva HFL nel 1859 in una lettera all’amico Whistler. Più che un mestiere, l’arte per lui è uno scopo in sé, un piacere irrinunciabile, una ragione di vita, un impegno esclusivo che non ammette deroghe o compromessi. “Al di fuori dell’arte non posso fare e dire niente – scriveva due anni dopo – e ogni giorno che passa la mia visione dell’arte mi allontana da questa vita, perché l’arte richiede sacrificio ed è oltre la vita”.

 

Aveva iniziato a frequentare a quattordici anni i corsi serali di disegno della Scuola imperiale di disegno e matematica, nella rue de l’Ecole de Médecine. Da lì poi era entrato nello studio del suo maestro Horace Lecoq de Boisbaudran, al quai des Grands-Augustins, per scoprire un metodo di insegnamento fondato sulla memoria visiva. Timido, riservato, intransigente, HFL è un allievo sensibile, a suo agio più con la pedagogia libera che con le norme dell’accademia, tant’è che dopo appena tre mesi abbandona i corsi dell’Ecole des Beaux Arts per proseguire il suo apprendistato da autodidatta. Al Louvre passa giornate intere davanti ai capolavori di Giorgione, Rembrandt, Velázquez e Poussin, davanti ai ritratti neoclassici del barone Gérard e ai dipinti del genio romantico di Eugène Delacroix, intento a studiarli e a riprodurle per copie destinate al commercio. Le nature morte di Chardin, i ritratti di scuola fiamminga, la pittura italiana sono il suo pane quotidiano, e “Le nozze di Cana” del Veronese il suo pezzo preferito. “Da quando entra allo studio di Lecoq sino ai quarant’anni resterà un eterno studente, uno che crede più di ogni altra cosa nello studio del passato”, scrive Gustave Kahn. Eppure, per quanto timido e riservato, ribelle alle regole e orgoglioso del suo ideale d’artista, HFL non disdegna il confronto con i contemporanei.

 

Con altri pittori della sua generazione forma la “Société des vrais bons”, per sperimentare la peinture de l’avenir. Al Louvre incontra un giovane pittore tedesco, Otto Scholderer, che è anche violinista e che gli farà scoprire la grande musica tedesca, Schumann, Wagner, restandogli amico per tutta la vita. L’anno dopo, nel 1858, è in un pittore americano e cosmopolita, James Abbott McNeill Whistler, che troverà il suo alter ego e un sostegno prezioso.

 



Henri Fantin-Latour, La lettura


 

HFL è stanco di lavorare da copista. Si sente pronto al grande salto. Dipinge un autoritratto dopo l’altro e si cimenta con la pittura di interni, col ritratto delle due sorelle minori, Marie, che sposerà un polacco, e Nathalie che invece finirà internata nell’asilio psichiatrico di Charenton, perché schizofrenica. Nasce così un altro capolavoro in mostra al Luxembourg, e conservato al Saint Louis Art Museum, “Les deux soeurs”. HFL ritrae le sorelle alle prese con la vita quotidiana: una assorta nella lettura di un libro, in silenzio, l’altra che le sta seduta di fronte e solleva lo sguardo verso lo spettatore, mentre continua a tessere su un telaio a mano. In un altro ritratto, “La liseuse”, Marie Fantin-Latour, seduta su un divano rosso, appare ancora una volta impassibile, immersa nelle pagine di un libro e completamente assente, lontana dal mondo, distante da sé. E nei suoi tratti severi e al tempo stesso dolcissimi c’è qualcosa di misterioso, non solo il distacco dal reale, ma la disattenzione, forse persino l’estraneità a se stessa.

 

Il primo tentativo di esporre questi dipinti al Salone del 1859 finisce male. Per superare la delusione, HFL accetta l’invito di Whistler e del cognato di quest’ultimo, il chirurgo Francis Seymour Haden, e parte per dell’Inghilterra. A Londra scopre un mondo nuovo, visita i musei, impara la tecnica dell’acquaforte, e si commuove ascoltando la musica di Robert Schumann, un altro dei suoi compositori preferiti. Seguirà un nuovo soggiorno nel 1861 e un terzo viaggio nel 1864 ospite del dottor Haden e di Edwin Edwards, il collezionista che nel corso degli anni diventerà il suo principale agente per il mercato inglese e un fedelissimo amico. Nel 1875 HFL lo ritrarrà accanto alla moglie Ruth Elizabeth in un dipinto monumentale esposto ora nella mostra parigina, dove si respira lo stesso distacco, la stessa semplicità fredda e severa dei ritratti delle due sorelle. Identico, a distanza di anni, il rifiuto di ogni traccia di compiacenza: nessun tentativo di abbellire la realtà, bandita ogni indulgenza all’ornamento, escluiso cedere allo stile decorativo. HFL è un intransigente, un puritano, un essere solitario e profondamente anti mondano, ma è soprattutto un’anima in pena che solo grazie agli amici fedeli riesce a trovar pace. E infatti Anatole France, nell’elogio funebre lo chiamerà “le peintre de l’amitié”.

 

Sarà Edwards a incoraggiarlo a dipingere nature morte, molto apprezzate dal mercato inglese. Ed eccole qui le nature morte che facevano impazzire i collezionisti londinesi. “Le cose più semplici, le più banali all’apparenza hanno un carattere interessante, che va restituito. Troppi artisti vogliono ornare il vero, il che significa travestirlo”. E invece no, bisogna osservare la realtà e riprodurla senza pathos, senza enfasi, senza inseguire una dimensione narrativa. “Basta solo la nota speciale dell’individuo moderno, nei suoi abiti, fra le sue abitudini, in casa o per la strada”. Rispondendo all’ingiunzione di Duranty e della scuola naturalistica, HFL dipinge tutto ciò che gli capita sottomano, oggetti quotidiani, utensili da cucina, personaggi. Anche lui, come il grande Chardin che resta il suo modello, cerca di combinare oggetti diversi disponendoli su un piano e lavorando sui riflessi come accade nel “Tagliacarte”, oggi al museo di Alençon, o per il “Vaso giapponese” conservato nel Museo di Boulogne-sur-Mer. E poi vengono i fiori, la serie infinita dei gigli giapponesi, dei narcisi e dei tulipani, la composizione di fiori e frutta che si trovano al Museo d’Orsay, e la tavola di Toledo, con quel vaso rotondo come la boccia di un pesce rosso, dal vetro trasparente per i mille riflessi dell’acqua che seguono le rifrazioni della luce.

 


Henri Fantin-Latour, Rose (1871)

 


 

Le nature morte entrano al Salon del 1866, ma HFL, deluso dal verdetto del giurì, decide di non ripresentarne più. Intanto ha scoperto la libertà, coltivando la solitudine e le sue gioie segrete. “Je suis si heureux avec mes natures mortes dans mon atelier bien seul” scrive all’amico Whistler, e la sua reputazione si consolida. Composizioni studiatissime e molto controllate, le nature morte di HFL obbediscono in ogni dettaglio a una cura estrema: la precisione del tocco s’accompagna alla perfezione del disegno, e la rappresentazione del reale, per quanto fredda, distaccata, impassibile, vibra di un’enigmatica forza interiore, come se fosse percorsa da una misteriosa sensualità.

 

Ben presto i fiori lo stancano. “Non ho mai avuto così tante idee sull’arte in testa, e invece sono costretto a dipingere fiori. Nel farli, penso a Michelangelo, davanti alle peonie e alle rose. Non può durare”, si confida in una lettera a casa. Così nel 1864, dipinge l’“Omaggio a Delacroix”, il primo dei grandi ritratti di gruppo che verrà accolto al Salon di quell’anno. Dipinto per reazione all’indifferenza che aveva circondato il funerale del famoso pittore romantico, questo ritratto collettivo, ancora meglio che in quelli precedenti, contiene la cifra sua più singolare. HFL dipinge infatti le persone come se fossero vasi di fiori: “On peint les gens comme des pots de fleurs”. Ispirandosi ai dipinti di Frans Hals, di Phlippe de Champaigne, di Van der Hels e di Rembrandt, riunisce un cenacolo di artisti, critici, poeti, pittori, inscenando una sorta di dialogo ideale davanti al ritratto del maestro Delacroix. Scelti per amicizia o per affinità, fra di essi si riconoscono l’adorato Whistler, Duranty, Champfleury, campioni del naturalismo in letteratura, ma anche Cordier, Legros, il rivoluzionario Edouard Manet, al quale tre anni dopo dedicherà un magnifico ritratto dipingendolo negli abiti di un dandy raffinato, e infine il vecchio maestro Bracquemond, e Charles Baudelaire, poeta e apprezzato critico d’arte. Ognuno di questi artisti, però, è come un’isola, come una monade senza finestre, prigioniero dei propri pensieri, incapace di interagire con gli altri, tanto è forte la concentrazione dello sguardo, e l’attenzione verso un’idea fissa, o una realtà invisibile. Fra tutti, spicca il modo in cui HFL dipinge se stesso, l’unico in bianco, con la camicia da pittore e in mano pennelli e tavolozza, un modo nemmeno tanto larvato per evocare l’ambivalenza che l’attanaglia, tra la necessità di sentirsi parte di un gruppo e solitudine irriducibile dell’ individuo artista.

 

 Un’altra prova di militanza artistica in mostra al Luxembourg è un’altra grande tela collettiva, “Un atelier aux Batignolles”, oggi al Museo d’Orsay, che rappresenta una dichiarazione estetica a favore della pittura contemporanea, simbolizzata da Manet. Questo dipinto, prima grande acquisizione dello stato francese nel 1892, esposta al Salon del 1870 vince quell’anno la medaglia di terza classe e segna finalmente l’inizio della consacrazione ufficiale di HFL. “Il successo ha superato le mie aspettative. Ho ottenuto l’approvazione dei migliori giudici… vengo accettato anche dai miei nemici. Aver successo senza fare alcuna concessione, lo confesso, mi ha procurato un grande piacere”.

 

Intransigente, sordo ai compromessi, refrattario alle mode, tanto da disdegnare gli impressionisti come scuola, finirà addirittura per distruggere un dipinto come “Il brindisi, o l’omaggio alla verità”, dove il realismo mal si sposa all’allegoria per celebrare l’arte nuova, e di cui restano decine disegni preparatori che mostrano alcuni artisti intorno a una donna nuda che tende loro uno specchio Eppure, pur non essendo un rivoluzionario, HFL resta un pittore moderno e al tempo stesso classico, che ha avuto il merito di superare la gerarchia dei generi e di scardinare le norme della pittura accademica, assicurando la transizione dal realismo al simbolismo. Ribelle, solitario, moderno suo malgrado, era un genio bifronte che guardava all’oggi con l’animo rivolto al passato, perché era un pittore antico, sensibile al bello, all’armonia, all’arte pura come valore e come ideale. “Quello che cerco, è fare bene, e il bene appartiene a pochi grandi artisti, è la bellezza che appartiene a ogni tempo e a ogni paese, questa misteriosa armonia…io appartengo interamente al culto dei grandi artisti, ecco la mia religione, l’arte, il solo ideale, la sola cosa pura nell’uomo”.