Librerie vuote e pance piene. Cosa fanno gli italiani quando escono di casa

Rubina Mendola

Impoverimento culturale e boom del food and beverage. E’ qui che si assotiglia il divario tra classi sociali

Quando il tinello non basta più, e neppure la minestrina della nonna, la soluzione è dedicarsi all’outside cittadino più sistematico. Nessuno scandalo: perché, del resto, si dovrebbe passare il tempo a leggere o a studiare se i lettori non ci sono e insieme a loro le librerie? A quanto pare, esistono 13 milioni di italiani che oggi vivono in comuni senza una libreria, ma non si vedono sommosse per ribaltare il dato. La cifra è dell’Ufficio studi dell'Associazione Italiana Editori (AIE) e di un'indagine presentata a chiusura di Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria al Palazzo dei Congressi dell'Eur a Roma. Dall'indagine risulta che il 21,1 per cento della popolazione che risiede in comuni con più di 10 mila abitanti non ha una libreria vicino (sono esclusi i comuni dove possono esserci cartolibrerie, edicole-negozio, centri commerciali con librerie). In sostanza, esistono quindi in Italia 687 Comuni sopra i 10 mila abitanti, l'8,6 per cento del totale, che non hanno una libreria. Nelle isole e nel sud la percentuale di assenza di librerie si alza: il 15,1 per cento dei centri delle isole (con oltre 10 mila abitanti) e ben il 33,3 per cento di quelli del sud (più di 1 su 3) è senza librerie.

 

Il dato vale anche per il nord-est, dove il 20,5 per ceto (1 su 5) è senza librerie. Meno libri significa pance più piene, per contro, e un’immagine da winner. Così la ripresa di bar e ristoranti è assicurata, visto che dal 2012 sono quasi 29 mila le nuove attività di ristorazione, al ritmo di circa trenta nuove imprese ogni giorno, che hanno aperto prendendo il posto dei negozi che chiudono (come sempre il Mezzogiorno si distingue per la capacità di fare il boom in queste escalation di impoverimento culturale). Si è detto pure che in Italia questo entusiasmo per il cibo e per il bere potrebbe portare a 100 mila posti di lavoro nei prossimi due anni, soprattutto se si considera che il rapporto dell'Osservatorio Confesercenti calcola che dal 2012 si è avuta una crescita dell'8,3 per cento nell’ambito della ristorazione.

 

Cosa resta, dopo tutti questi numeri? Ci si deve assumere la retorica della responsabilità per un bilancio decisionale e valutativo che stabilisca se ci sia più bisogno di libri o di ristoranti e ristorantini e pub? Food and beverage, lo chiamano gli esperti e i solisti degli affari mondani notturni e diurni, e si sa che non nutre lo spirito ma almeno permette a ciascuno il suo episodio di celebrità e il suo intervallo di piaceri. Notorietà urbana, da tavolo o bancone, andrà bene comunque come utile surrogato dello status intellettuale che è troppo difficoltoso mantenere e coltivare. Si capisce poi che dietro questo smaniare del fuori casa c’è la frustrata tensione al possesso di una servitù o di un beau vivre, anche se imprecisato. Cosa c’è di meglio per indebolire e rendere meno drammatica la disparità delle classi sociali, e quindi desideri, ambizioni e passioni, se non la possibilità di essere serviti fuori casa? La disparità delle classi sociali, anche se profonda ancora oggi, viene facilmente mimetizzata dalle connotazioni esteriori a base di borsette, scarpe, e locali notturni che assumono proprio per questo potere di mimesi, un valore sempre più reale. Tutto ciò può apparire gratuito ma non vi è oggi in Italia vera disparità estetica o metodologica e sociale tra il ricco e il povero (eccetto che naturalmente nei privilegi più squisiti e complessi).

 

Il ricco oggi dà facilmente la possibilità al povero, se non di diventare ricco, di vestirsi come lui, di appropriarsi delle sue pose e di certe sue predilezioni, disse Parise (nel 1958!). E’ così che il ricco ha eliminato gli impulsi che conducono nella storia dei popoli, a rivoluzioni drammatiche. Assottigliata o falsamente eliminata questa distanza tra classi agiate e povere, la forza d’urto diventa tutt’al più una velleità ed ecco che la cultura non serve proprio a nulla, se non per esibirsi in gesti e occasioni che di culturale hanno la confezione e non la sostanza.

Di più su questi argomenti: