Il “Tenente Colombo”, affidato alla regia di un giovanotto che si chiamava Steven Spielberg

Bochco in paradiso

Mariarosa Mancuso

Da Colombo a NYPD. Prima di Steve i poliziotti in tv non erano come sono oggi

Dieci giorni per scrivere la puntata pilota di “Hill Street giorno e notte” (titolo originale “Hill Street Blues”, sei stagioni dal 1981 e una cinquantina di premi). Il neo-assunto Steven Bochco aveva chiesto al capo “che tipo di show vorresti da me?”. Il capo gli aveva risposto: “Non ti abbiamo preso per fare quel che vogliamo noi, ti abbiamo preso per fare quel che vuoi tu”. Così andavano le cose alla MTM Enterprises, fondata da Grant Tinker nel 1969 per produrre lo show dell’allora consorte Mary Tyler Moore (da qui le iniziali, poi arriveranno altri successi tra cui lo spin-off “Lou Grant”: cose che, se avete cominciato a guardare le serie da quando esiste Netflix, sicuramente vi sfuggono).

 

Lo racconta Steven Bochco – da qualche giorno nel paradiso degli showrunner che sicuramente esiste – in “Truth is a Total Defense. My Fifty Years in Television” (volendo trovare un titolo italiano all’autobiografia, potrebbe funzionare “La verità è l’arma più forte”). Era andato via dalla Universal alla fine degli anni 70 e non credeva ai propri occhi. Gli sceneggiatori alla MTM erano considerati cosa preziosa, il clima era amichevole, e lì lavorava l’amico Bruce Paltrow detto “Brucie”, padre di Gwyneth Paltrow e fornitore di dritte su come spassarsela nelle pause dal lavoro. Testuale: “Andavamo ai piani alti e molestavamo le segretarie; oppure scambiavamo battute pesanti con i capi”.

 

A libro paga della più strutturata Universal, Steven Bochco aveva già vinto un Emmy per il primo episodio della prima stagione del “Tenente Colombo”, affidato alla regia di un giovanotto che si chiamava Steven Spielberg. Titolo “Murder by the Book”, correva l’anno 1971. A commento del tempo record – che rivaleggia con i 52 giorni impiegati da Stendhal per dettare a un copista “La Certosa di Parma” – Steven Bochco aggiunge: “Io e Mike Kozoll avevamo collezionato negli anni storie, incidenti, dettagli e aneddoti utili per uno show poliziesco. Senza le censure dei network, i personaggi sono venuti fuori facilmente”.

 

I personaggi, assieme alle loro vicende private, per contorno la vita al distretto di polizia. Prima di Steve Bochco, gli agenti erano chiamati a rapporto, e attorno a loro c’era il vuoto pneumatico: mai un telefono, mai una scrivania in disordine, mai uno sguardo sulle paturnie di chi indossa la divisa (adesso ne hanno anche troppe, ma non possiamo dare la colpa a Bochco). Il copione piacque moltissimo, alla MTM e alla NBC (Grant Tinker stava per salire al posto di comando), ma i censori si fecero vivi con cinque pagine fitte. Il linguaggio non andava, Le storie non piacevano. C’erano troppi neri criminali e non abbastanza poliziotti bianchi per contenerli. Correttezza politica, zero: Bochco si vantava di essere un “equal opportunity offender”. Bochco disse: o così, o me ne vado.

 

Dopo i successi di “Avvocati a Los Angeles” e “NYPD”, tolse lo sfizio di un poliziesco in musica intitolato “Cop Rock”: TV Guide lo mise tra i 50 peggiori show di sempre. “Murder One” era invece una serie del 1995 che sviscerava un solo caso a stagione. Così in anticipo sui tempi che fu ripresa con il titolo “Murder in The First” nel 2014: l’anno della prima stagione di “True Detective”, altra serie affezionata alla forma lunga. Nel 2004 si tolse lo sfizio del romanzo, con “Hollywood” (in italiano da Neri Pozza). L’autobiografia cominciò a scriverla quando gli dissero della leucemia che lo ha ucciso. Orribile a dirsi – non ha un editore. Se l’è pubblicata da solo su Amazon, come un ragazzino che ha da raccontare solo la storia dei propri brufoli.

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