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La serialità reale degli Obama

Mariarosa Mancuso

Gli ex presidenti americani firmano con Netflix. Speriamo producano storie raccontate bene, non edificanti

Gli ex presidenti americani finora hanno scritto memorie, tenuto conferenze, fatto beneficenza. La via dello spettacolo professionale – non la messa in scena di una presidenza più o meno glamour – finora non era mai stata seriamente tentata (si è dato invece il caso opposto: Ronald Reagan da Hollywood ha spiccato il volo per Casa Bianca, e il film “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis non perde l’occasione per una battuta). Certo, Al Gore aveva girato nel 2006 “Una scomoda verità”, che vinse pure l’Oscar per il documentario. Ma si trattava della prosecuzione di una mancata presidenza con altri mezzi. O della consolazione per uno scacco elettorale, a nulla poté il riconteggio in Florida (i delusi dalla politica si fanno verdi o grillini, non esiste terza via).

   

Gli Obama firmano invece un contratto pluriennale con Netflix. Produrranno serie (già scritte e ancora da scrivere), docu-serie, documentari, film. Un’intera linea con il bollino di Barack e Michelle, sulla falsariga del bollino che Oprah Winfrey concedeva ai romanzi scelti per il suo club del libro. Jonathan Franzen sdegnosamente lo rifiutò per “Le correzioni”, quando ancora pensava che vendere molte copie fosse indegno di un bravo scrittore. Sceglieranno “inspirational stories”, che detto in inglese suona bene, ma altro non significa che “storie edificanti”. Quelle da cui ci siamo sempre tenuti alla larga, spernacchiandole se qualcuno osava citare il libro “Cuore”. Quelle che stanno rientrando dalla finestra, anche nella perversa declinazione che invece di “inspirational” dice “inclusive”: tante donne, tanti neri, tanti asiatici, tanti transgender, e come si permette Lena Dunham di mettere solo ragazze bianche nella sua serie “Girls”.

  

Gli Obama hanno messo le mani avanti, dichiarando che non useranno Netflix per fare le pulci alla presidenza Donald Trump. Preferiscono puntare sull’empatia e la reciproca comprensione – reciproca, si intende, tra i 125 milioni di abbonati che Netflix conta nel mondo. Primo risultato: i repubblicani hanno lanciato l’hashtag #BoycottNetlix o #CancelNetflix, mostrando lo screenshot di rinuncia all’abbonamento. Il più spiritoso adatta una battuta che di solito viene lanciata contro i lentissimi film da festival: “Preferirei vedere la pittura asciugare”.

  

Le credenziali ci sono. Barack al primo appuntamento ha portato Michelle a vedere “Fa’ la cosa giusta” di Spike Lee (prima, un gelato e una mostra dell’afroamericano Ernie Barnes all’Art Institute di Chicago). Cita “Il padrino” 1 e 2 tra i suoi film preferiti. Sa distinguere “Star Wars” da “Star Trek”. Apprezza “The Wire”. Ha visto anche qualche film poco mainstream come “Boyhood” di Richard Linklater. Michelle ha premiato con l’Oscar – in collegamento dalla Casa Bianca – il film “Argo”, diretto da Ben Affleck (c’era la politica, che liberò gli ostaggi all’ambasciata di Teheran, e c’era il cinema, perché gli ostaggi vennero liberati fingendo la lavorazione di una pellicola). Nasce alla Casa Bianca anche “Hamilton”, musical di strepitoso successo sul primo ministro del Tesoro americano (sta sulla banconota da dieci dollari). Lì il portoricano Lin-Manuel Miranda suonò il primo rap, una serata organizzata da Michelle.

  

Non sappiamo quanto Netflix abbia sborsato per aggiudicarsi la coppia quasi reale (pietra di paragone: per il suo memoir “Becoming”, in accoppiata con un libro del consorte, Michelle ha un contratto da trenta milioni di dollari). Qualsiasi sia la cifra, speriamo la useranno per scoprire e far lavorare gente brava, non per rendere il mondo un posto migliore.

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