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La manifattura del consenso

Perché le opinioni tendono sempre più a prescindere dalla realtà? Populismo e stato. Cosa succede alla democrazia se gli elettori rinunciano alle cerniere tra massa ed élite

Professor Cassese, Gianroberto Casaleggio ha detto una volta: “A me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica”. Ma quest’ultima non è un soggetto, non un’istituzione. Tuttavia, come l’“establishment”, gioca un ruolo importante. Quale è il suo ruolo, come si forma, come viene guidata e controllata?

Nel 1950, Benedetto Croce scriveva, a proposito dei rapporti tra società e Stato, “quando in un Paese dura la libertà, i parlamenti […] debbono tenere conto della pubblica opinione, la quale a un dipresso coincide con la libera stampa” (Benedetto Croce, ora in S. Cassese, “Il popolo e i suoi rappresentanti”, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019, p. 116). Se non si cerca di comprendere i modi di formazione dell’opinione pubblica e i modi in cui questa influisce sulle politiche, non si riesce a capire fino in fondo le trasformazioni che stiamo vivendo, perché questo è un capitolo della “manifattura del consenso” (una espressione usata dal linguista americano Noam Chomsky). Di recente, Carlo Galli (“Sovranità”, il Mulino, 2019) ha scritto che gli Stati sono divenuti “triedi del potere”, mentre erano prima “piramidi di potenza”. Negli Stati si intrecciano il potere politico tradizionale, quello economico e quello mediatico – narrativo, che – aggiunge Galli – sostituisce il discorso pubblico e la legittimazione argomentativa.

 

Che cosa è, allora, l’opinione pubblica?

Partiamo dal classico libro di Walter Lippmann, un giornalista americano, che scrisse nel 1922 un notissimo libro, “Public Opinion”, nel quale spiegava che i fatti sono influenzati da pregiudizi e preconcetti che inquinano e distorcono l’opinione pubblica. I mezzi di comunicazione, a quell’epoca giornali e radio, a loro volta influenzati da forze economiche, politiche e religiose, svolgono un ruolo preponderante nella formazione e nella manipolazione della collettività. Opposta l’idea secondo la quale l’opinione pubblica si forma mediante scambio di argomentazioni razionali tra organizzazioni rivali, che consente di raggiungere la verità, un’idea che ha percorso un tragitto che va da Edmund Burke (nel famoso discorso agli elettori di Bristol, del 1774, affermò che i “rappresentanti” non sono ambasciatori dei “rappresentati”, perché debbono formarsi una loro opinione dopo esame dibattimentale: quindi, la rappresentanza non è la somma delle opinioni dei “deleganti”) a Jürgen Habermas.

 

Perché si ha l’impressione che, oggi, in Italia, maggioranza e opposizione non solo non dialoghino, ma che addirittura parlino lingue diverse?

Proverò a spiegarlo, esaminando per ora solo i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e delle politiche delle due parti, che sono accomunate anche dall’età, dalla data di nascita. Una adotta un meccanismo che chiamerò ad ascensore, partendo dai sentimenti popolari, l’altra un meccanismo a cascata. I due circuiti sono diversi, chiusi l’uno all’altro. Naturalmente questa è una semplificazione, perché vi è anche un ulteriore elemento, costituito dall’apertura orizzontale nel secondo caso, che non c’è invece nel primo modello. Invece, il primo sfrutta anche le possibilità comunicative e di feedback del web. Sono due mondi culturalmente e tecnologicamente divisi, due modi diversi di fare politica.

 

Ma i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica sono rilevanti da tanto tempo e da tanto tempo esaminati.

Il loro esame è però divenuto più importante da quando si è capito che le politiche pubbliche non hanno a disposizione come strumenti solo leggi e incentivi economici ma anche – come ha lucidamente spiegato in un importante libro recente Riccardo Viale, “Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento”, Bologna, il Mulino, 2018 – “altre opzioni di impatto comportamentale come il design di architetture ambientali per indirizzare la scelta in una direzione voluta dal policy maker, l’utilizzo ispirato alle scienze comportamentali dell’informazione e della comunicazione pubblica; lo sviluppo di forme di istruzione e formazione per potenziare le competenze decisionali umane”.

 

Cominciamo dal modello ad ascensore, quello di M5s e Lega.

“A me non interessa la politica, interessa l’opinione pubblica”: la frase di Casaleggio padre. Questo è il punto di partenza: la voce del popolo. Non élite, non “opinion makers”. La politica all’epoca del digitale, per chi lo sfrutta, consiste in un ascolto continuo dei “sentimenti” popolari, una specie di continuo sondaggio. Controllo e analisi continua di post e tweet, ascolto continuo delle opinioni della gente, monitoraggio della rete in grado di leggere commenti e conversazioni, con un “listening tool”, mettendo sotto osservazione parole chiave, per poi rilanciarli, semplificandoli e arricchendoli, tramite “meme”, in modo da allargare l’area dell’ascolto e del consenso. Le reazioni ai messaggi inviate vengono poi esaminate, interpretate, e vengono rilanciati altri messaggi, con la tecnica dell’interesse composto, che si arricchisce continuamente di conoscenze dell’opinione del popolo, tramite “sentiment analysis”, e di “followers”, il cui cerchio si amplia continuamente mediante influenza continua di altre opinioni. Questo modello ha una capacità predittiva (consente di conoscere i comportamenti degli elettori) e una manipolativa (specialmente grazie alla formazione di “echo chambers” e ai “filter bubbles”, che creano e rafforzano l’impressione di sentirsi parte di un gruppo, sfruttando le identità liquide, ovvero mutevoli). Una indagine di “Sociometrica” su 3 milioni di record (tweet scambiati negli ultimi 10 giorni della campagna elettorale per il Parlamento europeo) ha consentito di notare che i temi “Salvini” e “Sea Watch” hanno dominato e che la campagna condotta da Salvini ha alimentato, influenzato, rafforzato, orientato pensieri e sentimenti popolari.

 

Modello complicato da realizzare.

Perché fondato su molti elementi costitutivi. Primo: dire al popolo quello che esso vuol sentirsi dire. Secondo: seguire una tecnica incrementale. Terzo: accettare di stare continuamente in campagna elettorale. Quarto: esprimersi per slogan, con dei “meme”, battendo sempre sugli stessi punti (pare che sia stato Goebbels a dire: “Una menzogna detta una volta rimane una menzogna, ma una menzogna ripetuta un migliaio di volte diventa verità”). Quinto: non replicare, precisare, smentire, mettere a punto (questo comporterebbe un dialogo orizzontale, con competitori, quello che interessa l’altro modello). Sesto: scegliere un nemico e batterlo ogni giorno, non discutere.

 

Questo processo incrementale, che si arricchisce continuamente, richiede un grande uso del web.

Sì, ma in un modo inconsueto. Come è noto, i modi di comunicazione sono tre. “One to one” (ad esempio, la lettera scritta a un amico). “One to many” (ad esempio, la radio e la televisione). “Many to many” (il web). Ora, in questo modello il web viene utilizzato sia come mezzo di comunicazione “many to many”, sia come mezzo di comunicazione “one to many”. Si può dire che il modello ad ascensore ha sviluppato un quarto tipo di comunicazione, che mette insieme il secondo e il terzo modello.

 

Tutto questo incide anche sul sistema politico costituzionale?

Certamente. Questo modello è legato all’idea del parlamentare – portavoce, che riferisce non in Parlamento, ma tramite la rete, direttamente agli elettori. Manca il soggetto collettivo, ci sono i leader e i mandanti. Con questa tecnica non potrebbe succedere quello che veniva raccontato nel film “Magic Town”, del 1947 (quindi all’epoca del successo degli “opinion polls” e dei “pollsters”), di “Grandview”, una cittadina – specchio dell’America: quando gli abitanti se ne resero conto, e cominciarono a pensare di poter manipolare l’opinione pubblica, perdettero la qualità di rappresentare l’opinione americana.

 

Passiamo all’altro modello, quello a cascata, che sarebbe oggi quello di Forza Italia e del Partito democratico.

E’ quello tradizionale. Tra le élite maturano e circolano idee, che vengono dibattute; quando si sviluppano, vengono sottoposte all’attenzione delle “masse”, con ulteriori passaggi, sia dal basso in alto che dall’alto al basso. In questo modello vi sono “opinion maker” e “opinion leader”. I temi sono più elaborati. Vi è una dirigenza che interpreta, filtra, elabora, tramuta “sentimenti” e idee insieme in programma. Lo strumento utilizzato non è tanto la rete, quanto televisione e giornali. Donde anche un deficit digitale. I modi del dialogo vertice – base sono – dove resta un’ombra di quello che furono i partiti – la sezione e il congresso, oppure i sondaggi. In compenso, questo modello, essendo più elitista, è anche più aperto orizzontalmente alla discussione con le opinioni degli oppositori.

 

Quale dei due è più democratico?

Non so se sia questa la domanda giusta da porre. In ambedue i modelli c’è un dialogo base-vertice, in ambedue c’è una élite. Nel secondo più apertura orizzontale, nel primo più ascolto della base. Per la valutazione comparativa, comincerei da un altro punto. La democrazia e le sue teorie non hanno sufficientemente affrontato e studiato il problema che sorge dal fatto che le opinioni non corrispondono automaticamente alla realtà. Ci sono limitazioni cognitive, perché non siamo in grado di interpretare un mondo troppo grande e complesso. Abbiamo quindi quelli che Lippmann chiamava stereotipi, immagini mentali riassuntive, che si inseriscono tra le persone e il loro ambiente. Da qui la difficoltà di fondare su una cosiddetta volontà popolare le politiche pubbliche. Il modello ascensore, quello che pare più vicino al valore della democrazia intesa nel senso comune, presenta non pochi inconvenienti. Il primo è che mette la leadership su un tapis roulant, sul quale deve necessariamente muoversi per non cascare, rendendo quindi i leader dei precari, costretti ad “apparire” ogni giorno. Ma governare non è apparire. Il secondo è che costringe a un continuo racconto di fatti e della realtà non per quello che sono, ma per quello che la gente vuole che sia. Il terzo è che costringe a una ottica di brevissimo periodo, perché bisogna annunciare continuamente, all’inseguimento continuo di sentimenti e richieste, e quindi anche dei cambi di umore dell’opinione pubblica. Il quarto è che è costruito in un circuito chiuso, in cui parlano solo quelli che entrano nel circuito, e non c’è quindi un dibattito pubblico e una vera e propria sfera pubblica alla Habermas. Il quinto è che spinge a un uso separato di mezzi di comunicazione, che poi si rivela insufficiente (infatti, il M5s, che si è rifiutato a lungo di apparire in televisione e di dichiarare ai giornali, è stato poi costretto a farlo).

 

Quali le conseguenze sull’opinione pubblica?

Una rivoluzione è in corso, legata alla manifattura del consenso. I mezzi di comunicazione, la “libera stampa” di cui parlava Croce, che giocava un ruolo di educazione, di filtro, di guida ha perduto il “ruolo di cerniera tra élite e massa” (sono parole di Alessandro Barbano in una intervista al Foglio del 19 aprile 2019), a favore del web, che permette di arrivare alle notizie senza filtro. I mezzi tradizionali, specialmente i giornali, perdono quota a ritmi dal 7 al 10 per cento all’anno. Questo vuol dire “a loss of gatekeepers”. Il 70 per cento della popolazione ha accesso a internet tramite smartphone e personal computer. Le forze politiche si dividono non solo in base alle politiche, ma anche in base alla loro capacità di utilizzare i mezzi di comunicazione. Mai come oggi i media sono il messaggio. Questa divisione fa crescere un muro tra le forze politiche, crea una sordità tra di esse. Produce anche quindi poco dibattito diminuendo la componente schumpeteriana della democrazia, che rende il potere visibile, permette il controllo. In conclusione, il governo rappresentativo non può funzionare bene se non ci sono una o più organizzazioni indipendenti per rendere intelligibili i fatti a quelli che devono decidere e che aiutino questi a vedere quelli non visti, senza dimenticare che “i fatti sono carichi di teoria” (come aveva osservato Paolo Rossi, “A mio non modesto parere. Le recensioni sul Sole 24 Ore”, Bologna, il Mulino, 2018, p. 37). E sarebbero necessari “national town meetings” e tanti altri strumenti per eliminare o almeno ridurre le aree di ignoranza.

 

Quali le conseguenze sulla società e sulle istituzioni?

Sulla cittadinanza, sull’opinione pubblica, sul modo di far politica. Per quanto riguarda la prima, la possibilità di collegarsi alla rete e di comunicare a gruppi di persone e persino di indirizzarsi a tutti gli utenti modifica atteggiamenti ed aspettative dell’individuo rispetto alla collettività, costruendo una percezione soggettiva di potenza, dando l’impressione di poter far sentire la propria voce come un politico in un comizio o l’autorità in una trasmissione televisiva. Questo cambia le condizioni di cittadinanza, dà l’idea di avere un potere non mediato, rafforzato dall’illusione di poter decidere tutto mediante referendum.

Le conseguenze sull’opinione pubblica sono state indicate con intelligenza da Alessandro Campi in due articoli apparsi sul Messaggero del 19 ottobre 2018 e del 23 aprile 2019: trasformazione dell’opinione pubblica in emozione pubblica, colonizzazione della sfera pubblica ad opera di quella privata, prevalenza dell’immediato sul passato, indistinzione tra il reale e l’artefatto, la “narrazione” o il falso, trasformazione del leader in un “follower” del suo pubblico, rifiuto della competenza a favore di una concezione egualitaria dei rapporti sociali, abbandono del linguaggio complesso a favore di uno semplificato. La possibilità di “osservare il mondo non per quello che è ma per quello che sembra” (osservazione di Claudio Cerasa, il Foglio del 3 luglio 2018) consente di ingigantire fenomeni come la corruzione, il numero degli immigrati, la diffusione della criminalità. I problemi connessi e le conseguenze sono molti: ricorso al “nudging”, falle nella “cybersecurity”, difficoltà di tutela e gli utenti (per esempio, “right to be forgotten” o diritto all’oblio).

Infine, la dimensione digitale trasforma il modo di fare politica: le campagne politiche divengono forme di “marketing” con “micro-targeting degli elettori e la politica diventa quantistica, per adoperare la felice intuizione di Giuliano da Empoli in “Gli ingegneri del caos. Teorie e tecnica dell’Internazionale populista” (Venezia, Marsilio, 2019), che spiega come emerga una forma politica nuova in cui nulla è stabile, le interazioni sono importanti, più verità contraddittorie possono coesistere.

 

Quali le conseguenze sui processi cognitivi?

Rispondo con le parole di Massimo Adinolfi (“Hanno tutti ragione? Post-verità, fake news, big data e democrazia”, Roma, Salerno editrice, 2019, pagine 36-37, 76-77, 81): sono in crisi non il concetto di verità dei fatti, ma le cornici interpretative in cui i fatti sono inquadrati; il problema della postverità non riguarda tanto l’indebolimento del suo statuto teorico, quanto piuttosto le condizioni della sua produzione. Quindi – sono sempre parole di Adinolfi – occorre tenere viva una solida infrastruttura intellettuale che consenta la più ampia circolazione di idee e incentivare pratiche che consentano attriti, di mescolare le carte, di coltivare il dissenso.

 

Ma non è in dubbio la stessa verità?

Infatti, la storica americana Sophia Rosenfeld ha in un libro recente spiegato che i rapporti di verità e democrazia sono stati sempre fragili, precari, ma ha aggiunto che la democrazia ha la straordinaria virtù di assicurare sempre la possibilità di una seconda “chance”, ed elencato una serie di “antidoti” che consente il pluralismo, strumentale al raggiungimento della verità: libertà di parola e opinione, una stampa attenta nel verificare e riportare i fatti, un sistema che assicuri libertà di voto, un ordine giudiziario indipendente, efficaci sistemi di istruzione (il libro è intitolato “Democracy and Truth. A Short History”, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2019).