Leoluca Orlando (foto Imagoeconomica)

Il ritorno di Orlando, che per nascondere i guai aveva bisogno di un gran nemico

Giuseppe Sottile

Leoluca e Matteo, due populisti nello specchio di Palermo

Ha scavalcato i settant’anni ma crede ancora di essere il picciottazzo del secolo scorso che, con la sua antimafia chiodata, faceva tremare la Democrazia cristiana di Arnaldo Forlani, di Giulio Andreotti e di Salvo Lima. Ha da tempo i capelli bianchi e alcuni peccati da farsi perdonare: come quell’attacco ribaldo al mite Leonardo Sciascia, che gli contestava il principio secondo il quale “il sospetto è l’anticamera della verità”; o come la sfida improvvida lanciata contro Giovanni Falcone, giudice coraggioso, accusato inopinatamente di tenere le prove nei cassetti. Con il ciuffo ribelle ancora appiccicato sulla fronte, Leoluca Orlando ha rivissuto ieri l’ebbrezza di troneggiare sulle prime pagine dei giornali: da sindaco di Palermo ha detto che non intende applicare il decreto sicurezza tanto caro a Matteo Salvini, ministro dell’Interno e titolare di una campagna – “prima gli italiani” – che spazia dalle stanze di Palazzo Chigi ai post di Facebook; e così dicendo ha imbracciato la bandiera di un’altra rivoluzione: quella della disobbedienza a una legge dello Stato, tra l’altro già promulgata dal Quirinale con la firma di Sergio Mattarella, palermitano e suo fraternissimo amico.

 

La legge, piaccia o no, prevede che i sindaci non possono conferire la cittadinanza ai migranti irregolari. Ma Orlando, “in nome dei diritti umani sanciti dalla Costituzione”, ha dato disposizione agli uffici di disattendere la durissima norma ed è diventato così, all’improvviso, el conducator di una rivolta contro Salvini e contro le istituzioni che il leader della Lega oggi rappresenta.

 

Uno scontro tra due populismi, non c’è dubbio: da un lato quello del ministro dell’Interno, sostanzialmente costruito sull’intolleranza e sulla paura della gente nei confronti di un fenomeno, certamente non facile da contrastare, come l’immigrazione clandestina; dall’altro lato quello di un sindaco, cresciuto tra i gesuiti, che vuole aprire le porte della città a tutti gli immigrati e su questa scelta chiama alla lotta coloro che, dalla Napoli di Luigi De Magistris alla Firenze di Dario Nardella, non sopportano più né il governo gialloverde né tantomeno la ruspa sovranista del ministro dell’Interno. Chi vincerà?

 

Matteo Salvini, che i giacobini al tempo della Bastiglia avrebbero definito un “débauché de esprit”, ovviamente non ha incassato. E ha invitato Orlando a concentrare i propri sforzi sui problemi di Palermo, che sono tanti e tutti gravissimi, e di non cedere alla tentazione di un buonismo spregiudicato, perché un’accoglienza dilatata e priva di regole finirebbe per fare il gioco degli scafisti e di tutto il sottobosco che sul traffico dei clandestini lucra e conclude affari. Affermazioni di indubbio sapore demagogico quelle del ministro e vice premier; ma non proprio fuori dalla realtà.

 

“La vita delle città non l’ha creata Dio”, annotava Erskine Caldwell ne La via del tabacco ma uno sguardo misericordioso su Palermo e le sue borgate avrebbe potuto anche darlo. La città vive un degrado che male si attaglia all’immagine, angelica e basilicale, che il sindaco tende sempre a dare di se stesso. Orlando non perde occasione per ricordare i suoi studi professorali a Heidelberg, di avere intrattenuto rapporti con statisti di livello internazionale come Hillary Clinton, di scrivere libri in tedesco e di avere sperimentato tra Amburgo, Stoccolma e Monaco di Baviera anche la difficile arte dell’attore. Si compiace di avere tenuto testa per quasi tutto il 2018 a “Palermo capitale della cultura”, con mostre e iniziative che gli hanno consentito di tagliare un’imprecisata quantità di nastri, di raccogliere fiumi di applausi al Teatro Massimo, di appagare intuizioni e aspirazioni dei salotti più accreditati e, all’un tempo, di alimentare le clientele che da oltre un quarto di secolo lo seguono e lo esaltano con fedeltà e perseveranza, manco fosse il figlio prediletto di Santa Rosalia. Certo, la sua fortuna nasce anche da un consenso accumulato negli anni della cosiddetta “primavera di Palermo”, quando era un giovane puro e duro che non aveva paura né dei boss della mafia né dei padrini della politica. Un consenso che per cinque mandati gli ha permesso di sedere indisturbato a Palazzo delle Aquile e di governare per tantissimi anni una città sfuggente e complicata come Palermo.

 

A suo modo c’è riuscito. Con i suoi metodi, ovviamente: se un oppositore si azzardava a contraddirlo lui sapeva come criminalizzare il dissenso: “chi è contro di me fa il gioco della mafia”, diceva. E quando Sciascia ebbe l’ardire di inserirlo nella cerchia un po’ deviata dei professionisti dell’antimafia lui, il sindaco della “primavera”, ordinò ai suoi ragazzi – ai suoi pretoriani, si stava per dire – di passare al contrattacco e di segnare a dito l’autore de Il giorno della civetta come un uomo da “collocare ai margini della società civile”. Uno sfregio.

 

Oggi forse non lo rifarebbe. Sa bene che i tempi non sono più quelli dorati e spavaldi del primo mandato. Lui si ostina a spacciare l’idea che Palermo stia vivendo un luccicante rinascimento, una scintillante età dell’oro, un incanto di preziosa favola; ma la città è soffocata da cumuli di rifiuti, immondi e maleodoranti che bruciano nottetempo e bruciando ammorbano interi quartieri, da Falsomiele a Bonagia, da Settecannoli a Cruillas fino allo Sperone, fino alla spiaggia di Mondello. Un problema enorme di cui un sindaco, quale che sia la sua città, dovrebbe farsi carico. Ma Orlando, come beffardamente sottolineano i suoi oppositori, è un sindaco fuori dal Comune, nel senso che negli uffici del Municipio non ci sta mai. Mentre il problema dei rifiuti sta sempre lì a marcire come la monnezza accatastata lungo i marciapiedi.

 

Uno spettacolo irritante quello di fronte al quale i palermitani e i turisti arrivati a Palermo si sono ritrovati in questi ultimi mesi. Un ritratto sgradevole che ha finito per appannare il regno del Conducator e per incrinare il consenso che la città gli ha tributato fino all’11 giugno del 2017, quando è stato rieletto per la quinta volta sindaco di Palermo.

Per riconquistare il palcoscenico c’era naturalmente bisogno di un colpo di teatro. E soprattutto di un nemico che, come nel bel tempo andato – il tempo di Forlani, di Lima, di Andreotti – riportasse la disfida nello schemino collaudato del Davide contro Golia e che andasse oltre gli angusti confini di Palermo. Il ministro Salvini, con le sue arroganze e le sue intemperanze, è stato per Leoluca Orlando l’uomo della Provvidenza. Con il ruvido decreto sulla sicurezza ha consentito all’ex ragazzo col ciuffo di tornare al suo vecchio mestiere: la rivoluzione. Allons enfants.

  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.