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Tutto quello che si deve sapere sul cringe, per non caderci dentro

Annalena Benini

Se raccontate barzellette tristi, se fate i giovani non essendolo più, lo sentite il brivido?

Poi un giorno capisci una cosa: tutto quello che devi assolutamente evitare, d’ora in poi, adesso che puoi rimediare solo alla metà degli sbagli, adesso che non conviene nemmeno più tanto dimagrire perché non si sa che può succedere alla faccia e al corpo nel giro di una settimana o due, adesso che anche gli insegnanti di liceo di tua figlia sono molto più giovani di te (e ti ricordi come ti sembravano vecchi, i tuoi insegnanti, quando andavi al liceo? ), è che il mondo ti trovi CRINGE.

 

Non devi permetterlo. Prima di tutto, quindi, bisogna scoprire che cos’è il cringe, perché se non lo sai ci sono grosse probabilità che tu qualche volta sia stato troppo cringe. Magari hai raccontato una barzelletta a tuo figlio e ai suoi amici, una barzelletta lunga dei tuoi tempi, e loro hanno riso per educazione? Lo hai fatto? Spero che tu non lo abbia fatto, lo spero davvero. Oppure ti sei provata dei vestiti per una festa davanti alle amiche di tua figlia e hai chiesto consigli ridendo? Minigonne maculate? Reggiseni imbottiti? Dimmi che non lo hai fatto. Hai raccontato di quando andavi tu al liceo e quanto eri popolare e di quella volta che sei caduta nella fontana ubriaca di vodka alla pesca? Ti prego, no. Hai detto: ragazze, aspettatemi, vengo con voi, sono pazza di Laurie da sempre, alle tredicenni che stanno andando al cinema a vedere il nuovo Piccole donne? Se l’hai fatto, e se l’hai fatto con la precisa volontà di essere considerata la madre (o il padre, se racconti le barzellette, se vuoi fare qualche tiro a calcio) più divertente della storia delle madri e dei padri, probabilmente meriti questa parola: cringe. C’è qualcosa di onomatopeico, lo senti, come un brivido, come il rumore delle unghie sulla lavagna, che provoca una smorfia di disagio. 

 

 

Cringe significa, più o meno, imbarazzante, ma è di più. E’ il disagio per qualcosa che non ha funzionato e che però ci si era impegnati a far funzionare. L’impegno, unito al fallimento, provoca l’imbarazzo. Assomiglia per significato a una famosa parola tedesca, Fremdschamen, che è la vergogna per interposta persona (esempio: un politico dice qualcosa di molto ignorante e molto fuori luogo, davanti al mondo intero, e noi ci vergognano per lui, ma anche per noi), ma cringe è quasi peggio, perché è meno istituzionale e contiene il crepitio della decrepitezza.

 

Mia figlia usa spesso questa parola per serie tivù imbarazzanti, spesso fantasy, o per scene di film, o per personaggi di serie o di film che nelle intenzioni di chi ha fatto quel film dovrebbero essere brillanti, spiazzanti, sorprendenti, e invece sono solo terribilmente, desolatamente cringe. O per video di youtube che non fanno ridere, ma intanto il protagonista del video per cercare di far ridere ha già perso la dignità. Il cringe è vicino al trash: ma mentre il trash è sempre anche cringe, il cringe non è necessariamente trash. Un padre che racconta le barzellette che non fanno ridere per risultare simpatico agli amici di suo figlio non è per forza trash, anzi in quel suo essere cringe c’è anche qualcosa di positivo, e nel trovarlo tremendamente cringe c’è una manifestazione di affetto e di pietà. Ha fallito per amore, e chi di noi non fallisce per amore? Hai ostentato uno sbaglio, ma a chi non succede? E’ stato ingenuo, ci ha messo entusiasmo e impegno, è precipitato nella vergogna con le migliori intenzioni. Potrei spingermi a dire che dentro questo cringe è già compreso il perdono di chi lo prova, ma penso che sia cringe anche esagerare con l’ottimismo.

 

Ovunque ci sia lo sguardo limpido e critico di un giovane essere umano forte dei suoi pochi anni, ci sarà il cringe. E sappiate che saranno capaci di trovare il cringe anche in Dirty Dancing, o in C’è posta per te (in Sex and the City tantissimo), quindi a volte è anche permesso ribellarsi e fregarsene. Tra l’altro una certa dose di cringe è concessa, a patto di averne piena consapevolezza. Ci abbiamo provato, non ce l’abbiamo fatta, ci siamo sentiti fichi e non era il caso, vogliateci bene lo stesso.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.