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Natale Americano

Caterina Venturini

È così strano eliminare il dolore e la paura da ogni storia, anche da quella di Giuseppe e Maria

Due anni fa mio figlio è stato finalmente ammesso, dopo vari test e certificazioni (ebbene sì, anche in America, in California precisamente, vige una certa burocrazia) a una scuola elementare bilingue italiano-inglese: pubblica. Sì, avete capito bene. L’unica nella contea di Los Angeles, poiché non si trova all’interno dei 1.290 chilometri quadrati della metropoli in cui sono venuta a vivere, ma in una cittadina poco più a nord che per una volta è vicina al mio quartiere, che finora si era rivelato distante da tutto. Dall’Oceano Pacifico, da Venice, Malibu e Hollywood, insomma da quei luoghi che gli italiani mi chiedono di visitare quando vengono qui: ecco che casa mia – avrei scoperto a due anni dal mio arrivo – era vicina almeno a quella scuola. Ho cominciato così ad accarezzare l’idea che mio figlio potesse ricevere un’educazione italiana non solo dalla sua famiglia d’origine, alleggerendo in parte noi genitori dal ruolo di eterni custodi della tradizione e di un dover essere italiani, che pure non ci stancavamo (quasi) mai di interpretare.

 

Precisando che questa scuola ha mantenuto finora le sue promesse, arriviamo a oggi, a quest’invito alla Winter Holiday Performance che, come mi spiegherà il tirocinante italiano in classe di mio figlio, le maestre non hanno potuto chiamare Concerto di Natale, anche se le canzoni, tutte italiane e cantate in italiano (il concerto in inglese con le varie Jingle Bells ci sarà due giorni dopo) hanno titoli come: Girotondo di Natale, Natale è festa, Buon Natale in allegria, ecc. A fine concerto, dunque, questo giovane insegnante con cui mi è già capitato di scambiare opinioni sulla bellezza della sua esperienza di lavoro in un paese come la California, per molte ragioni all’avanguardia rispetto al nostro, mi chiede se il concerto mi è piaciuto e io gli rispondo con quel cinismo che piace tanto usare a noi italiani/e nella iper-correct America: “Sì, però preferisco canzoni di Natale un po' più tristi tipo Tu scendi dalle stelle con Gesù Bambino al freddo e al gelo. Cose così”. E lui: “Quelle non si possono cantare più! Sono troppo religiose e poi turberebbero i bambini. La maestra per poter raccontare in classe la storia di Giuseppe e Maria scacciati da tutti e costretti a riparare in una grotta, ha dovuto spiegare subito anche la Chanukkah ebraica”. “E questo mi sta bene – dico – perché è importante conoscere tutte le tradizioni”. “Infatti”, conviene lui, allora cos’è che ci disturba? “E se disturba me – aggiungo – che sono femminista e non credo più al Dio cristiano, padre, bianco, maschio, eterosessuale… figurati gli altri!”, e ridiamo. Ma quella risata – il ghigno tipico degli stranieri che si ritrovano a criticare sempre il paese ospitante, e che le statistiche autoctone inseriscono tra i “sintomi” dello choc culturale – in questo caso continua tornando a casa; ma non è più una risata, è simile a uno sgomento. Mi chiedo che senso abbia cantare il Natale cancellandone ogni complessità storica, o quanto meno psicologica, se è vero che l’umanità creando Dio, ha dato voce alle sue paure/desideri più inconsci. Perché rimuovere dalle canzoni (molte prese dallo Zecchino d’Oro degli ultimi anni) ogni traccia di dolore, fisicità, corpo dolorante: nascita come venuta in un mondo inospitale, che poi è il simbolo più potente della Natività cristiana?

 

“Maria e Giuseppe bussavano a tutte le porte, ma nessuno gli ha aperto”: questa è la scena rimasta impressa a mio figlio seienne del racconto della sua maestra; credo che un motivo ci sarà se anche noi da piccoli/e ci appassionavamo a questa vicenda di rifiuto e difficoltà, proprio perché in qualche modo andava a riecheggiare qualcosa di autentico e vissuto, in vario modo, dall’umanità intera nel suo nascere, vivere e morire. E quando successivamente, attraverso i miei studi di genere, ho approfondito il significato simbolico mai neutro di tanti passaggi della tradizione (cristiana e non), mi ha giovato avere chiara la memoria delle origini. Così oggi mi chiedo: ha senso cantare delle canzoni che celebrano soltanto l’allegria di una nascita e tolgono tutto il resto? Ha senso abolire il corpo, la fatica di vivere e il rischio di morire? Dove ci porta il negare l’ombra di quegli uomini e quelle donne che chiusero le loro porte a degli sconosciuti, a degli stranieri?

 

È pur vero che in un “continente” come gli Stati Uniti, in cui da una parte si vendono tessuti di feti sani abortiti, mentre dall’altra si scrivono leggi per reimpiantare quelli malati nell’utero delle donne da cui sono stati estratti, la civile e progressista California si cautela come può, ma a questo punto, se la narrazione del fatto – storico o solo religioso che sia – è scomparsa, allora questo concerto invernale facciamolo a febbraio e cantiamo quanto siamo felici perché verrà la primavera.

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