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il bi e il ba

Il duello tra il Conte di Volturara Appula e il Marchese del Grillo

Guido Vitiello

Chi ricorda l'hashtag #chiedeteciscusa? Le vicende in capo al M5s sono l'ultimo episodio puerile e ridicolo che esemplifica l'antropologia grillina. Sempre alla ricerca del piedistallo morale da cui giudicare, al motto "tutti sono colpevoli, tranne me"

Il duello tra il Conte di Volturara Appula e il Marchese del Grillo ha preso una piega imprevista, con grande sconcerto dei secondi e dei testimoni – ossia, nel caso di specie, dei cronisti e dei retroscenisti. Aveva mandato a dire, il Conte, che avrebbe preteso pubbliche scuse per le insolenze del Marchese, e che non si sarebbe accontentato di un’ammenda privata e informale; poi però lunedì ha negato di averle mai chieste, quelle scuse, rinunciando così a esigere vendetta. Fatale imprudenza: il giorno dopo il Marchese fellone lo ha schiaffeggiato col guanto, e convocato all’alba sulla piattaforma Rousseau. Se tutto questo vi sembra puerile e ridicolo, siete in buona compagnia. Gli stessi due aggettivi salutarono nel 1829 uno degli ultimi duelli combattuti in Gran Bretagna, quando il Duca di Wellington, primo ministro, sfidò il Conte di Winchilsea per certe sue insinuazioni apparse in una lettera allo Standard. Dopo un primo colpo sparato ritualmente in aria, si convenne che il Conte avrebbe affidato a quello stesso giornale un testo con bene in vista la parola “scuse”. Un osservatore dell’epoca, lo scrittore e politico Charles Greville, trovò deplorevole tutta la vicenda: “Ritengo che il Duca non avrebbe dovuto sfidarlo; un atto puerile, ed egli ricopre una posizione troppo elevata”; in fin dei conti, diceva Greville, “tutto si è svolto al di sotto della sua dignità, lo ha sminuito, ed è stato più o meno ridicolo”.

Per quanto puerile e ridicolo, il duello tra Conte e Grillo è rivelatore. In assenza di uno statuto condiviso, che è anzi la principale materia del contendere, l’avvocato del popolo aveva deciso di appellarsi a una fonte non scritta, una sorta di codice d’onore pentastellato – e d’altra parte “honestus” vuol dire, al contempo, onesto e onorabile. La richiesta di pubbliche scuse era davvero un’astuzia machiavellica, tanto da far supporre che ci fosse lo zampino del suo padrino di duello, il visconte Casalino. Non tutti ricordano che all’inizio del 2017, quando il grande vaffa aveva il vento in poppa, i grillini funestarono i social network con il pestilenziale hashtag #chiedeteciscusa. Per settimane, con la geometrica potenza della comunicazione casaliniana, tutto lo stato maggiore grillino diede l’assillo ai giornalisti, accusati di spargere menzogne sul M5s. A inaugurare la campagna fu lo stesso Grillo: “Se uno sbaglia, chiedere scusa non è il minimo? E non è forse giusto che la verità venga ristabilità? #chiedeteciscusa”. Non è un dettaglio trascurabile. Tutta l’antropologia di Grillo e dei grillini si fonda sul pretendere scuse da chiunque e per qualunque ragione, e sul non concederle mai, perché concedendole si dà al nemico quello che gli americani chiamano “moral high ground”, il piedistallo morale da cui osservare e condannare gli altri. Questa antropologia era stata descritta da Pascal Bruckner in un preveggente saggio del 1995, “La tentazione dell’innocenza”: “Definisco innocenza questa malattia dell’individualismo che consiste nel voler sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni, nel tentativo di voler godere dei benefici della libertà senza soffrire di alcuno dei suoi inconvenienti”, scriveva Bruckner. “Tale fenomeno si dipana in due direzioni, l’infantilismo e la vittimizzazione, due modi di sfuggire alla difficoltà dell’essere, due strategie dell’irresponsabilità felice. Nel primo caso, l’innocenza deve intendersi come parodia della spensieratezza e dell’ignoranza dell’infanzia; essa culmina nella figura del perenne immaturo. Nel secondo caso, essa è fenomeno di angelicità, implica l’assenza di colpa, l’incapacità di compiere il male, e si incarna nella figura del martire autoproclamato”. 

Nel pretendere scuse davanti all’intera nazione, Conte stava chiedendo al bambinone martire di sconfessare pubblicamente il fondamento stesso del suo potere di ricatto, ossia l’irresponsabilità capricciosa eretta a sistema, ritorcendogli contro la sua arma tutt’altro che bianca. Se avesse acconsentito ad ammettere di aver lanciato insulti a vanvera, Grillo avrebbe dovuto rinnegare sé stesso e dichiararsi sconfitto davanti a Conte, consegnandogli le insegne di nuovo bambinone martire in capo. Si sarebbero scoperchiati i sepolcri, e i tanti tormentati per quindici anni in nome dell’onestà avrebbero visto risorgere un poco delle loro reputazioni martirizzate. Era chiedere troppo, e tuttavia la ritirata strategica di Conte è stata punita con sproporzionata ferocia. Perché il motto araldico sullo stemma del Marchese del Grillo non è il sempre citato “Io so’ io” del film di Monicelli, ma la frase di Céline che Bruckner scelse come epigrafe al suo saggio: “Tutti sono colpevoli, tranne me”.

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