La Scala (Ansa)

Granmilano

Che succederà alla Scala? L'immobilismo e le decisioni che servirebbero

Alberto Mattioli

La scelta dei nuovi incarichi e il pasticcio di aver perso Fuortes: cosa accadrà allo storico teatro milanese lo sa solo Beppe Sala. Se nel bilancio amministrativo ed economico le cose vanno bene, quello artistico è tutto ancora da verificare

Ormai è certo: Carlo Fuortes, una volta uscito dal bunker di viale Mazzini, non traslocherà alla Scala ma al San Carlo (sempre che il governo riesca a sloggiare da Napoli Stéphane Lissner, che già affila le carte bollate). Sarebbe interessante allora capire cosa succederà al teatrone milanese. Il mandato dell’attuale sovrintendente e direttore artistico, Dominique Meyer, scade nel 2025, quello del sindaco nonché presidente della Fondazione, Beppe Sala, nel ’26. Sala ha fatto le barricate contro Fuortes, che invece sarebbe stato l’uomo giusto al posto giusto, in nome della sacrosanta autonomia della Scala e più in generale di Milano dalla politica romana (e rinunciando così a tenere in area Pd, fino al 2030, la più importante istituzione culturale italiana). Un tentativo di prolungare Meyer di un anno, quindi a farlo scadere in contemporanea al sindaco, non è nemmeno approdato in Consiglio d’amministrazione, segno che una maggioranza non c’era o non era abbastanza ampia.

 

Quindi, adesso che succede? Questo di preciso lo sa solo Sala o forse nemmeno lui, ma la risposta più probabile è: niente. Per lo Statuto, quella di scegliere un successore al sovrintendente in carica è una facoltà, non un obbligo. E di fronte a Meyer ci sono una serie di passaggi importanti: un cda il 27 aprile dove si parlerà del bilancio, un altro a metà maggio per illustrare la nuova stagione, la presentazione, il 29 maggio, del cartellone 2024-25, peraltro già noto a chiunque legga i giornali, la campagna abbonamenti. Quieta non movere potrebbe essere la soluzione migliore, poi magari tornare alla carica per la proroga e lasciare la patata bollente del successore del sovrintendente a quello del sindaco. In realtà, nell’Europa civilizzata cui Milano continuamente si richiama non funziona così, e i dirigenti dei teatri vengono scelti con grande anticipo per affiancare i loro predecessori. Meyer ha convissuto con il suo successore Bogdan Roscic alla Staatsoper di Vienna e ha affiancato Pereira alla Scala, quindi sarebbe bene scegliere per tempo. Nulla esclude che sia Meyer a succedere a sé stesso, anche se è francese e quindi poco compatibile con la linea autarchico-vernacola del ministro Sangiuliano. Però c’è francese e francese. Al momento i rapporti fra Sangiuliano e Meyer sembrano meno tesi che in passato, e in ogni caso migliori di quelli, pessimi, fra Sangiuliano e Lissner.

 

Il quadro non è completo senza un check-up sullo stato di salute del teatrone. Dal punto di vista amministrativo ed economico, sembra soddisfacente: i conti sono in ordine nonostante i postumi della pandemia, il teatro è sempre pieno, segno che marketing e comunicazione lavorano bene, e la Scala non avrà nemmeno accesso ai bonus governativi per l’energia perché nel ’22 ha speso come nel ’19. LaScalaTv è un’innovazione apprezzata e Meyer ha anche azzeccato un paio di nomine: Alberto Malazzi come maestro del Coro e Manuel Legris come direttore del Ballo. A proposito di balletto, va benissimo: fa più recite, ha più pubblico e rende più dell’opera perché al teatro costa meno. Il bilancio artistico è invece meno luccicante. Usciamo da un’infilata di produzioni mediocri dove c’era sempre qualcosa che non andava o nelle regie o nelle direzioni: I vespri siciliani (regia), La Bohème (direzione), Les contes d’Hoffmann (direzione), Li zite ngalera (regia), Lucia di Lammermoor (regia) e insomma per l’ultimo grande spettacolo, Salome, bisogna risalire a gennaio. La prossima stagione sarà meglio, anche perché è difficile che possa essere peggio, con molti grandi direttori (Petrenko, Harding, Mariotti, Thielemann, ovviamente Chailly) ma con alcune scelte insensate sulle regie. Resta il problema di ridare alla Scala un’identità forte e riconoscibile, che non dev’essere per forza il mainstream internazionale ma magari una via italiana al teatro musicale che però sia contemporanea e non l’imbarazzante modernariato dei De Ana o dei Kokkos o il museo delle cere Zeffirelli-Strehler. Al di là dei nomi, la questione vera, forse, è questa.

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