LI CHIAMAVANO TRINITÀ

Cattelan, Vezzoli e Tosatti alla Prima della Scala: e se in futuro curassero gli allestimenti?

Corrado Beldì

Oltre ai giudizi sul Macbeth e ai lunghi applausi al capo dello stato, colpiscono tre presenze in sala. Avvenute per puro caso o segno di una prossima e organica apertura della Scala ai maggiori artisti del nostro tempo?

Una foresta che si muove dietro un’automobile che porta Macbeth e Banco fin dentro il Preludio e poco dopo una Lady Macbeth di sangue vestita, la splendida Netrebko in un palazzo déco con enormi finestre affacciate su una città mai vista. Verrebbe da pensare a Gotham, è una metropoli dell’antropocene densa di grattacieli con le fondamenta sulle nuvole, immaginifico sfondo di una Prima suggestiva, serata di grandi voci, un ottimo Luca Salsi, direzione impeccabile, costumi ben riusciti e proiezioni mozzafiato, su tutte una Battersea Power Station che manco nelle fantasie dei Pink Floyd, di nuovo meravigliosamente fumante dietro al coro dei profughi scozzesi. Sarebbero tante le cose da scrivere, su queste pagine il compito è di altri, perché a me stasera, durante i lunghi applausi al Presidente della Repubblica, ha colpito la presenza in sala, a pochi posti di distanza, di tre artisti italiani tra i più noti. Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli e Gian Maria Tosatti, una presenza simultanea che non passa di certo inosservata, almeno a chi spera come me in una botta di contemporaneità sul repertorio e sulle regie del teatro. Presenza casuale o segno di una prossima e organica apertura della Scala ai maggiori artisti del nostro tempo? Di certo non sarebbe una novità assoluta.
 

Nell’ultimo secolo qualche scenografia d’artista qui c’è stata, un Nerone di Mario Sironi nel 1924 e sette opere con scene e costumi di Felice Casorati, tra cui la Donna Serpente di Alfredo Casella nel 1942 e la Walkiria del 2 febbraio 1943 e chissà come si stava in teatro nel giorno in cui i tedeschi si arresero a Stalingrado. Per il resto pochissime altre cose, tre interventi di Renato Guttuso, le reti e lo sfondo oltremare di Carlo Carrà per la Lampara di Franco Donatoni nel 1957, i bozzetti di Jean Cocteau per la Serenade di Čajkovskij nel 1965, due anni dopo una caverna rosso fuoco di Fontana per un balletto su Don Chisciotte e di recente i costumi e le scene bronzee di Arnaldo Pomodoro per il Teneke di Vacchi con la regia di Ermanno Olmi. Interventi spesso laterali, con l’unica vera eccezione di Alberto Savinio tra il 1948 e il 1952, Uccello di Fuoco, Oedipus Rex e Les contes d’Hoffmann e anzitutto i suoi Vita dell’uomo e Orfeo vedovo, opere totali sui cui bozzetti ho passato un pomeriggio mesi fa nella meravigliosa personale a lui dedicata a Palazzo Altemps.

 

Chi potrebbe essere il prossimo, se mai ci sarà, non è facile dirlo. Certo che di questa Trinità di artisti, nel caso servisse, il padre non può che essere Maurizio Cattelan. Arriva sornione in smoking e farfallino nero, capelli argento e una forma invidiabile. Il rientro dal suo momentaneo buen retiro, il mondo cambia e noi per primi, non poteva essere più fantasmagorico. Una mitragliata dopo l’altra, anche su lamiere d’acciaio tempestate di fori di proiettile per una mostra da Massimo De Carlo, ma insuperata è la performance i cui quasi lo faceva schiattare e ogni volta stiamo qui a chiederci come gli vengono certe idee. La banana scocciata e mangiata da un artista di passaggio a Miami, soprattutto il cesso d’oro al Guggenheim e poi rubato a Blenheim Palace, giuro che non sono stato io, avevo lasciato il palazzo col buio la sera prima, mi ero solo fermato un attimo mentre cercavo una balera in zona per assistere a un’opera di Graham Vick. Il cesso comunque non l’hanno più ritrovato e non c’è da stupirsi, alle mostre di Cattelan succede sempre qualcosa di inatteso e allora chissà che accadrà alla piccola Sistina aperta a Pechino e ai 2996 piccioni dell’Hangar, potrei sbagliarmi ma li ho contati sei volte o alla torre attraversata da quello strano aereo che più morbido di così si muore. Nonostante il mio pressing stasera Cattelan fa pretattica, gli chiedo che opera vorrebbe allestire ma non si sbottona e anzi si affretta a smentire, “non sarei capace, finirei per fare un’immagine che non cambia per sette giorni”. Oddio, forse si è tradito… che la Scala voglia affidargli una riedizione del Licht di Karlheinz Stockhausen?

 

Mentre medito su questa ipotesi ecco comparire Francesco Vezzoli, della nostra Trinità più che il figlio lui è un eterno fanciullo, non è affatto cambiato da una sera a Berlino a metà anni Novanta, le macerie del Muro erano ancora fresche e le notti intense di techno e libertà. Ci conoscemmo ad Hackesche Höfe sulle scale di casa Hoffmann e mi sorprese con un “cosa ti piace davvero?”. Lì per lì risposi “il piccolo punto”. Mia sorella mi aveva appena regalato un bel kit con ago, schemi e gomitoli di lana, poco più di una battuta e invece per Francesco non era un hobby passeggero, non sapevo nulla del suo lavoro e mi aveva invitato a casa a vedere un Malevič ricamato in giallo e dopo qualche tempo da Giò Marconi dei finissimi ritratti di Iva Zanicchi e Valentina Cortese, allestiti in lunghe giornate al telefono perché tutti, ma proprio tutti, venissero alla sua prima personale. Già allora, come un vero industriale bresciano, voleva conquistare il mondo che nel suo caso era Hollywood e in effetti di colpi ne ha assestati, i film con Marisa Berenson, Helmut Berger, Bianca Jagger, il profumo immaginario da Gagosian, la performance con Lady Gaga al MOCA o ancora il remake del Caligola di Gore Vidal e sopra tutto TV 70, la mostra sulla televisione italiana alla Fondazione Prada, forse la sua cosa più bella insieme all’evocazione della casa e della vita di Alexander Iolas, poco prima di alcune incursioni nel pop, come la copertina per il tormentone estivo di Fedez, Achille Lauro e Orietta Berti, e del gran leone rampante e dilaniante a Firenze in Piazza della Signoria, opera contro la cancel culture e frecciata nostrana di un artista che detesta qualunque idea di naufragio. Gran talento per le relazioni e un occhio vispo di chi già pensa alla prossima sorpresa, si muove in un completo Prada molto borchiato e si schermisce da ogni mio tentativo, vorrei tirargli fuori qualcosa ma glissa alla grande, dice solo “mi piacerebbe fare una Carmen” e già mi vedo un remake del capolavoro di Cecil B. DeMille, con qualche diva degli anni Settanta ormai sul viale del tramonto.

 

Per saperne di più ci vorrebbe lo Spirito Santo, è quello a cui penso quando appare nel foyer Gian Maria Tosatti. Già critico teatrale e ora artista gettonatissimo, Gian Maria è uno di quegli artisti che con l’arte vogliono cambiare la società o almeno mostrarla con una luce più chiara. L’artista come uno specchio, lo aspettano tutti al varco dopo che all’invito per il Padiglione Italia della prossima Biennale è seguita la notizia della mostra all’Hangar e la nuova direzione della Quadriennale. Il cattivissimo Renato Barilli sulle pagine di Artribune si è già messo a sparare su Tosatti “che magari sarà un genio, ma a insaputa mia e ritengo di molti altri colleghi”. Invece lui va avanti come un treno, ha lo stesso sguardo di quella mattina di dodici anni fa in cui mi chiuse per un’ora nella Torre idrica dell'Ospedale San Camillo a Roma, vagavo tutto solo in un ambiente ostile e all’inizio mi sentii un po’ a disagio e invece tra quei muri e su quelle scale c’era un cosmo da scoprire e persone da coinvolgere, come migliaia di novaresi che sarebbero entrati nelle stanze di Casa Bossi o come tutti quei bambini che Gian Maria ha portato a raccontare storie, al lume di candela, in una chiesa di Forcella riaperta alla comunità dopo mezzo secolo. Artista serissimo e politico, da qualche tempo Tosatti si interroga sul senso della nostra civiltà, lavora sui confini geografici e culturali, dalla Jungle de Calais dove voleva costruire un grande arcobaleno al termine di una tempesta mai davvero finita e poi a Istanbul, nel quartiere curdo di Tarlabaşı e a Odessa dove in piena pandemia ha acceso otto maestosi lampioni in mare e di recente a Ivangorod, al confine tra Estonia e Russia, per una performance su entrambi i lati della frontiera, fermato dalle autorità mentre i cittadini, senza farsi condizionare, portavano avanti il lavoro costruito insieme. Almeno lui si scuce, parla di questa regia “che mi piace perché esalta la forza drammatica di Verdi” e “l’impianto scenico è davvero efficace” e “la musica è straordinaria”. Poi si ferma, come se volesse confessare qualcosa. “Vorrei fare una Traviata e ho già un’idea precisa”. Finalmente una dichiarazione. Forse l’inizio di una piccola rivoluzione?

 

In tempi recenti in giro per l’Italia qualche raro caso c’è stato, con Carlo Majer al San Carlo le scene di Giulio Paolini per il Parsifal e di Anselm Kiefer per Elektra e le regie di William Kentridge per il Flauto e per la Lulu di Alban Berg quella volta a Roma e poco altro, incluso il nuovo sipario di Mimmo Paladino al Regio di Parma. Altrove si osa di più, penso a quel capolavoro di Pae White all’Opera di Oslo e al memorabile Tannhäuser di Joep van Lieshout a Bayreuth e l’elenco sarebbe lungo e il maggiore teatro d’Italia in questo potrebbe davvero fare da propulsore, usando i nostri migliori artisti come alfieri di una nuova tendenza. Innovazione e rischio culturale sono il fondamento di ogni politica culturale, anche e soprattutto se sorretta da fondi pubblici e se è vero che l’arte precorre i tempi e le discipline minori ne abusano, il maggiore teatro del Paese non può sottrarsi all’idea di coinvolgere gli artisti del nostro tempo e dovrebbe anzi farne una bandiera. Se poi ci saranno davvero una Traviata di Tosatti o un Licht con scenografia di Cattelan o una Carmen con scene e costumi di Vezzoli o qualcosa di alquanto diverso, davvero non importa. Ciò che conta è che accada e che i nostri teatri non abbiano paura di disegnare un futuro tutto da costruire e non solo da proiettare.