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Il ruggito della cancel culture

Michele Masneri

Colloquio con Francesco Vezzoli, che a Firenze ha allestito una mostra per riflettere su antico e moderno, l’America, i diritti e noi, RuPaul e Zan

Un enorme leone che pare quello della Metro Goldwyn Mayer tiene in bocca una testa piccola piccola di un povero cristo. L’ultima fatica di Francesco Vezzoli è fuoriscala e drammatica/pop. A Firenze, dal 2 ottobre, ecco “Francesco Vezzoli in Florence”, a cura di Cristiana Perrella e Sergio Risaliti. Il progetto – presentato dal Museo Novecento di Firenze e dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato – mette in dialogo arte contemporanea e patrimonio storico-artistico della città. Dunque l’artista bresciano-internazionale ci mette “l’opera più grande che abbia mai realizzato: questo leone di cinque metri disneyano che pare un incrocio tra Gardaland e il Vittoriale, con una curiosissima posa antropomorfa, un leone in piedi con in bocca una testina originale del II secolo dopo Cristo di un senatore romano. Ai piedi del leone c’è la toga, scolpita oggi, nuova di zecca, e il corpo del senatore. Poi dentro Palazzo Vecchio c’è il contraltare, nello studiolo di Francesco I una vera toga romana antica con una testa in bronzo come la musa dell’Archeologia di De Chirico”.

   
Ognuno può trarne la sua lettura”, dice Vezzoli al Foglio, “ovviamente il punto di partenza è sempre il rapporto dell’antico e del contemporaneo, antichità vera, antichità falsa”, cioè i suoi temi prediletti. E però questo leone è molto americano. “E l’omino con la toga è anche la mia posizione nel dibattito di oggi. Nella tensione culturale e critica che è violentissima”. Insomma alla vituperata cancel culture.  “Sì, e allo sfasamento temporale”. Cioè? “Cioè nel dibattito di oggi viviamo un grande sfasamento, appunto. In cui ognuno di noi deve trovare un meridiano di Greenwich su cui regolarsi. Siamo sicuri che sia proprio e sempre l’America? Bisogna trovare la latitudine di RuPaul”.  Che c’entra RuPaul? “RuPaul, che ha vinto più Emmy di chiunque altro, l’artista afroamericano più celebrato d’America, simbolo della comunità Lgbt, siccome aveva chiesto che nel suo celebre programma di drag non ci fossero donne transgender ma maschi travestiti, è adesso considerato vagamente transfobico. Il fatto è però che questa è la percezione a New York. Ma nello stesso tempo nel Minnesota RuPaul sarà perfettamente ok. E  da noi? Sarà il massimo della accettabilità Lgbt? E in Russia? Vaglielo a dire ai russi. Se a un gay russo che sta combattendo per i suoi diritti gli vai a dire a RuPaul è transfobico, quello non capisce più niente. Capisci che è uno spunto interessantissimo. A diverse latitudini ci sono diversità di conquiste. Insomma dov’è il meridiano di Greenwich?”. Direi sempre negli Stati Uniti. So che tu non ne sei convinto, ma come già per il condizionatore d’aria o il movimento studentesco, l’America mi sembra rimasta all’avanguardia. “D’accordo, diamole per l’ultima volta questo credito. Che almeno le loro élite stiano combattendo la grande battaglia. Ma possiamo noi esportare queste conquiste in tutto il mondo? Che gli diciamo al russo? Andiamo dal gay russo e ce la prendiamo con lui perché non è abbastanza avanti?  Ogni conquista va bene, o finché non raggiungiamo l’America non siamo contenti? O non è che l’America più che gettare il cuore oltre l’ostacolo si sta gettando direttamente nel dirupo? E questo vale per tutte le problematiche, soprattutto per la cancel culture. E poi, l’America ha diritto di imporre questi standard? Oppure essendo così più avanti come in una gara di ciclismo stacca troppo il gruppo e non riesce più a farsi raggiungere dagli altri?”. Quindi, scusa, chi dovremmo seguire? “Non lo so”, dice Vezzoli. “Per anni è stato così, soprattutto in altri settori. Finché si parlava di musica o di cinema o di effetti speciali è chiaro che tu ti inchinavi al loro professionismo. Questo però è il professionismo dello sdegno”. Vabbè, però allora chi prendiamo a esempio? La Polonia? “No, certo. Neanche l’Ungheria di Orbán. Magari l’America è in una fase che ho visto già accadere in Inghilterra, dove vivevo negli anni Novanta, con gli artisti più interessanti del mondo, la musica, eccetera, e poi però l’ho vista isolarsi e decadere, fino al punto più basso di oggi con la Brexit.  Un paese super propulsivo, propulsivo fino a chiudersi. Oggi se penso a un artista come Almodóvar, che secondo le regole di Hollywood non può concorrere agli Oscar, dove sta il meridiano?”. Eh, dove sta? “Magari Greenwich è l’Italia, oggi”. Mah. Non sono tanto convinto. “Certo, Cruciani che sdogana con Pupo le trans, è aberrante per molti. Ma allora uno come si colloca? Dove trova una terza via?” Troviamola. “Per esempio c’è Maria De Filippi. Con la scelta della tronista transgender lei fa un lavoro socialmente corretto. Rispetto a certi attivisti molto radicali lei punta a convincere una fascia più ampia della popolazione. Però ho sentito delle reazioni molto scontente”. Insomma meglio la De Filippi di Zan. “O di Michela Murgia”. 

  
Torniamo al tema della tua opera, che è meglio.  Oggi tra Internet e i social abbiamo tutti l’impressione di vivere in una strana contemporaneità. Antico e moderno.  “Ma sono le élite di Diet Prada a darci questa sensazione, non la realtà”. Diet Prada, facciamo servizio pubblico, è l’account iperwoke e un po’ furbetto che fa le pulci a tutti i marchi della moda e non solo, tutti sotto accusa di non essere abbastanza inclusivi ecc. Però a fianco di Diet Prada c’è l’opposto, c’è un sacco di gente che pensa di vivere nella dittatura del politicamente corretto in Italia perché legge del piccolo college a New York che magari cancella Shakespeare dal programma, e sta però, mettiamo, a Pescara, dove la stessa famiglia esprime rettori bianchi da 25 generazioni.   “Mancano i ponti. Mancano i Gore Vidal che una volta raccontavano e criticavano l’America all’estero.  Tutti la mattina si svegliano e si trovano il post di Diet Prada per indignarsi,  ma poi ci sono le realtà specifiche, dove il post di Diet Prada può essere eccessivamente corretto per alcuni, e per altri addirittura troppo poco. E poi ci sono i molti, forse la maggioranza, che non sanno manco che è Diet Prada”. Siamo sempre alla terza via, insomma. Tra professionisti dello sdegno e  conservatorismo da boomer. “Sì, da una parte l’attivismo, soprattutto per chi ha un retroterra culturale un po’ più complesso, è noioso. Come, dall’altra parte, c’è pure la noia dei discorsi infiniti su diritti che dovrebbero essere acquisiti e basta”. Però gli americani non ti convincono proprio. “Ma no, è che sono giorni che parlo con degli americani… mi sono radicalizzato”. Che è successo con gli americani? “Stavo facendo un progetto per creare un dibattito tra la comunità Lgbt e la comunità transgender in America, coinvolgendo un’attivista, Jodie Patterson. Però mi sono reso conto che è impossibile, mi sono sentito inadeguato, non me la sono sentita. Anche all’interno di segmenti che dovrebbero in teoria difendere gli stessi diritti ci sono molte tensioni interne. E’ come se in pochissimi anni fossimo passati dalle allegre scorribande del ’68 alla lotta armata del ’77, e non so come finirà”. 

  
Ti senti inadeguato, proprio tu? “Sì, non capisco: sarò troppo indietro o troppo avanti?”. E non è che sei Pillon. Anche se andava al tuo liceo, no? “Già. Io però poi mi son laureato alla St. Martins, ho fatto i gender studies trent’anni fa con Judith Butler, e nel 2001 ho avuto la mia Biennale di Venezia vestito da donna, con un caftano di Valentino alta moda. Io e Verushka, capisci, a ricamare insieme, per cui le cose di oggi…”. Ti lasciano un po’ indifferente. “Ma anche a quei tempi in America mi dicevano che era un lavoro vecchio, perché c’erano già stati Mapplethorpe e Felix Gonzalez-Torres. In Italia invece non andavo bene ugualmente, perché ero troppo camp o kitsch, non so. Mai allineato insomma: né col forefront americano né con la tradizione di maschio alfa dell’arte italiana, dove non c’erano artisti gay manco a cercarli col binocolo, nei libri di storia ufficiale”. Ti senti censurato oggi? “No, mi sento… annoiato, ecco. Venendo dagli studi che ho fatto, certe rivendicazioni mi fanno un po’ strano. Però penso che le conquiste durature son quelle che son condivise da tutti, se seducono solo un’élite poi non durano. Questo me l’ha insegnato Emma Bonino”.  Non mi dirai che sei contro lo Zan? “Ma no, per carità. E’ che sto Ddl Zan è come il Natale. Sacro, amatissimo, non vediamo l’ora che arrivi, giustissimo, però non se ne può più. Votiamolo e basta. Ti rispondo come il Covelli in ‘Vacanze di Natale’. ‘E anche questo Ddl se lo semo levati dalle palle!’”.   

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).