Cinque appunti sulla Prima della Scala

Complimenti a Paolo Gep Cucco per la migliore performance. Livermore si conferma il numero uno al mondo per chi ama il massimalismo. Bravissimo Francesco Meli, Macduff. Ma la prossima volta risparmiateci la cofana della prima donna

Fabiana Giacomotti

Appunti del dopo-Prima della Scala, dove per i primi due atti in tanti abbiamo avuto l’impressione che l’oceanico pubblico a casa si godesse il senso dello spettacolo infinitamente meglio di noi pubblico in sala, e nel terzo atto – dopo una pausa nel Ridotto Toscanini – ne abbiamo avuta la certezza. Come ha detto il regista Davide Livermore a qualcuno “non si deve provare invidia per chi sta in sala”, e ha ragione: perfino il gesto attoriale, che a chi era seduto in poltroncina sembrava una caricatura, sembrava pensato per bucare lo schermo. Forse, ma questo punto non abbiamo avuto modo di verificarlo, anche tutto quel saliscendi sull’ascensore per l’inferno, a un certo punto fastidioso, acquistava un senso. Da cui

 

Appunto 1. Chiamare Paolo Gep Cucco, direttore creativo di D-Wok, per fargli i complimenti. Moltissimi e sentiti (fargli anche due domande). In una ideale classifica su chi abbia dato la migliore performance ieri sera, lui vince a mani basse con i suoi effetti di morphing, che hanno trasformato Macbeth in un videogioco o in un film fanta-onirico modello Inception. D-Wok avrebbe meritato più spazio sui media già in occasione della Tosca del 2019 e anche lo scorso anno, quando applicò il sistema di realtà aumentata per la Prima “A riveder le stelle”, registrata a porte chiuse. E’ ora di rimediare offrendogli lo spazio che merita e qualche riflessione. E’ inutile che il pubblico del loggione rumoreggi, richiamando gli appunti di Giuseppe Verdi che nel 1847 scriveva di voler applicare multe a chiunque tentasse di stravolgere le sue note di regia: questo è il tipo di linguaggio visivo che capiscono anche in Corea del Sud (forse perfino al nord, ancorché non si siamo sicuri che apprezzerebbero la vicenda). E’ uno spettacolo esportabile, ed è quello che alla Scala serve, e soprattutto è piaciuto da morire ai più giovani. La Scala ieri ha aperto il suo primo canale TikTok, e ha fatto benissimo. E’ finita l’epoca dei fondali dipinti, per fortuna, ancorché

 

Appunto 2. Spiaceva davvero vedere Davide Livermore ringraziare il pubblico sotto una salva di fischi provenienti dal loggione. Sì, c’erano sfumature, qualche caduta di stile (le porte dell’auto di Macbeth e Banco dell’ouverture sbattute a ritmo con i piatti del percussionista, il goffo amplesso nel solito ascensore, che però non è del tutto imputabile a Livermore: né Anna Netrebko né Luca Salsi trasmettono frisson erotici, purtroppo), ma accidenti che spettacolo. Sontuoso, grandioso, di grande intrattenimento. Per chi ama il massimalismo, Livermore è al momento il numero uno. Pensando ai precedenti allestimenti scaligeri dell’opera, il nostro cuore andava al “cubo” di Graham Vick e a una lettura più intimista e sofferta di quello che è un dramma dell’anima, un laceramento della coscienza, e non una Cavalleria Rusticana in salsa scozzese, epperò parliamo di uno spettacolo del 1997, pre-Torri Gemelle, pre-populismi di ritorno, pre qualunque argomento sia di attualità oggi. E l’opera resta attuale solo se interpreta l’epoca in cui viene rappresentata. Dunque, e di nuovo, molti complimenti anche a Livermore, che già la settimana scorsa, al Foglio della Moda, aveva dato esauriente spiegazione del proprio pensiero, e che ieri sera ha dato prova di una grande tenuta di spirito. In smoking couture di Etro, a tavola da Cracco che, in mancanza di cena ufficiale alla Società del Giardino, si è trasformato nel luogo di ritrovo della migliore mondanità e di qualche artista di primo piano, raccontava con molta simpatia anche la ricetta del suo risotto alla Verdi “ma coi carciofi” che ha cucinato dopo il debutto dell’Attila per La Cucina italiana.

 

Appunto 3. Per certi versi, sembrava di assistere alla celeberrima Prima della Traviata alla Fenice, quando le signore della platea e dei palchi scoprirono con sgomento di essere vestite uguali uguali alle cortigiane di cui Verdi, ghignante, raccontava sul palco la storia. Con una differenza, però: i costumi del banchetto disegnati da Gianluca Falaschi erano cento volte più belli ed eleganti della maggior parte degli abiti visti in sala. Per questa Prima, molte signore hanno rispolverato gli abiti pre-Covid e/o della madre, nonna, whoever tornasse utile: tantissime sono corse da Lella Curiel a chiedere un capo vintage, temiamo spacciandolo per proprio, “di famiglia”. A sentirle, sembrava recitassero le linee del celebre monito di Mamie a Scarlett O’Hara che si duole di essere costretta a indossare solo abiti vecchi dopo la disfatta di Gettysburg: “Tutte le vere signore indossano gli abiti vecchi con orgoglio”. Ecco, gli abiti vecchi vanno benissimo, anzi sono in piena tendenza “economia circolare”: ma per evitare che sembrino muffi, e la stoffa “arrivata”, come si dice in gergo, esiste un servizio che le tintorie e le sartorie più abili effettuano a costo modico: si chiama “ricondizionamento”. Toglie la polvere e ridà lucentezza ai capi. Informarsi. Da cui

 

Appunto 4. La cofana della primadonna va eliminata perché ammazza lo spettacolo esattamente come i fondali ottocenteschi. Ogni anno lo diciamo, lo scriviamo, lo puntualizziamo nei conversari pubblici pre-Scala, e ogni anno ci viene risposto dai costumisti en titre che se le primedonne si sentono sicure col toupet modello Marge dei Simpson in testa, pazienza, “perché si giocano la carriera”. Se la gioca anche il costumista, però, e nulla stravolge il senso di un bel costume quanto la pettinatura sbagliata. I meme di Anna Netrebko col boccolo tirabaci e Moira Orfei regina degli elefanti circolavano sul web un minuto dopo la sua comparsa nella scena del banchetto. E nessuno ricorderà il bob perfetto del primo atto, che la rendeva più giovane ed elegante.

 

Appunto 5. Non siamo tutti finissimi melomani, però Riccardo Chailly che rallentava sulla cabaletta del primo atto per permettere ad Anna Netrebko di prendere tutte le note l’abbiamo sentito in tanti. E’ migliorata nel prosieguo, ma noi, cioè io, avevo fatto l’errore di riascoltare l’incisione del 1975 di Shirley Verrett, un mezzo-soprano, con la direzione di Claudio Abbado prima di recarmi a teatro, ed è stato un errore fatale, ancorché anche lei sul celebre “Ambizioso spirto tu sei O Macbetto” non desse, ma per tessitura vocale, il meglio. La parte della Lady senza nome, tutta titolo e ambizione, la donna che nega la propria femminilità perché sa che per i suoi scopi, in quella società, è un ingombro, la femmina guerriera e spietata che discende direttamente dal mito delle Amazzoni, è una figura complessissima sui cui Verdi, come noto, aveva lasciato note specifiche: la cant’attrice scelta non doveva essere particolarmente avvenente, e non doveva avere una voce convenzionalmente bella, quanto piuttosto possedere un tono “aspro, soffocato”. Da cui magica Callas del 1952, perfetta agente degli omicidi del marito e, mi ricordava l’ideale vicino di poltrona Paolo Baratta, gran conoscitore dell’opera, Ghena Dimitrova. La cabaletta, insomma, doveva essere demoniaca, non un invito a un brindisi: rabbiosa, non soffice. E la signora Netrebko è molto rotonda in tutto. Bravissimo Francesco Meli, Macduff, invece. Forse da casa non si sono sentiti, ma gli applausi più sentiti sono andati a lui.

 

Appunto 6. La platea. Abbiamo già tutti scritto, twittato, concordato sul fatto che l’unico bis della serata sia stato chiesto a gran voce, prima ancora dell’Inno, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Altri da chiedere, francamente, non ce n’erano, ancorché un applauso a parte sarebbe dovuto andare al coreografo Daniel Ezralow. La sala era invece un concentrato del potere nazionale di oggi, felice di ritrovarsi, riconoscersi, sapere di averla scampata, almeno fino a oggi, da Pier Carlo Padoan e Andrea Orcel di UniCredit al presidente di Abi Antonio Patuelli a Enrico Cucchiani, Giovanni Bazoli, Gabriele Galateri di Genola con la moglie Evelina Christillin, as usual più ricercata di lui dalle telecamere. Molta attenzione mediatica anche per il virologo Roberto Burioni, non bastasse il commento settimanale a Che Tempo che Fa, più defilati i ministri come Patrizio Bianchi e Dario Franceschini. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati austera. Sponsor in grande spolvero, anche per via degli omaggi dal palco (guardare bene l’auto dell’ouverture). Star della serata, dopo Mattarella, Giorgio Armani con il nastrino dell’Ordine al merito appuntato allo smoking, attorniato da decine di milanesi festosi e tutti i fotografi: incantevole l’allestimento floreale, in dégradé di rose, orchidee e rametti dorati, che ha valorizzato tutta la sala e non più, come è stato fino a due anni fa, lavorato per accrocchio attorno al palco reale, lasciando sguarnito tutto il resto.

 

L’effetto era molto armonioso, ospiti contenti. Il presidente della Rai Carlo Fuortes, seduto a centro sala e come si sa di eccezionale competenza lirica, di certo non avrà seguito la telecronaca della serata e ahinoi dell’opera. Avrebbe proprio dovuto, ma per questo c’è sempre Raiplay. Notato il bel gesto del sovrintendente Dominique Meyer di invitare tutti i suoi predecessori disponibili, fra cui Alexander Pereira ora al Maggio Musicale, sempre simpaticissimo, con la bella moglie stilista Daniela che distribuiva abbracci ai tanti conoscenti (“come, e io?” si lamentava ironico Roberto D’Agostino, molto ricercato dalle signore in cerca di visibilità).

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