il verdetto

La Consulta bastona i pm di Firenze: “Contro Renzi violata la Costituzione”

Ermes Antonucci

La Corte costituzionale: messaggi di posta elettronica e WhatsApp riconducibili al concetto di "corrispondenza". Nullo il sequestro disposto dalla procura fiorentina contro il leader di Italia viva nell'inchiesta Open

Con una decisione destinata a rappresentare un punto di svolta nei rapporti tra politica e magistratura, la Corte costituzionale ha accolto il conflitto di attribuzione proposto dal Senato nei confronti della procura di Firenze, nella parte in cui era diretto a contestare la legittimità dell’acquisizione di corrispondenza effettuata nei confronti di Matteo Renzi nell’ambito dell’inchiesta sull’ex fondazione Open

 

La Consulta, con sentenza numero 170, redattore Franco Modugno, ha affermato che la procura fiorentina “non poteva acquisire, senza preventiva autorizzazione del Senato, messaggi di posta elettronica e WhatsApp del parlamentare, o a lui diretti, conservati in dispositivi elettronici appartenenti a terzi, oggetto di provvedimenti di sequestro nell’ambito di un procedimento penale a carico dello stesso parlamentare e di terzi”. Di conseguenza, la Corte ha annullato il sequestro delle conversazioni che riguardavano Renzi estratte dallo smartphone di uno degli indagati nell’inchiesta Open. Questi messaggi elettronici sono infatti stati ritenuti riconducibili alla nozione di “corrispondenza”,  che per i parlamentari viene tutelata in modo particolare dalla Costituzione, con l’obbligo per i pubblici ministeri di chiedere l’autorizzazione alla Camera di appartenenza (articolo 68). 

 

Gli organi investigativi – ha stabilito la Corte costituzionale – sono abilitati a disporre il sequestro di “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi, come smartphone, computer o tablet, ma quando riscontrano la presenza in essi di messaggi intercorsi con un parlamentare, devono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza. 

 

Una decisione che segna una svolta, come conferma al Foglio Salvatore Curreri, professore di Diritto costituzionale presso l’Università Kore di Enna: “Al contrario della sentenza di pochi giorni fa sul caso Ferri, in cui la Corte costituzionale ha consentito intercettazioni preventive mirate nei confronti del parlamentare, purché non oggetto d’indagine, stavolta la Corte, con la sentenza sul caso Renzi (redatta dal giudice che invece nel primo caso vi aveva rinunciato) dimostra una apprezzabile maggiore sensibilità per la tutela del mandato parlamentare, obbligando i pubblici ministeri a dover chiedere l’autorizzazione preventiva alla Camera d’appartenenza se vogliono utilizzare nei suoi confronti anche quelle forme di comunicazione digitale che ormai costituiscono una dimensione essenziale e ineliminabile ai fini del libero svolgimento di tale mandato. Sotto questo profilo mi pare dunque una sentenza più attenta a salvaguardare il quanto mai oggi precario equilibrio dei rapporti tra politica e magistratura”.

 

La decisione della Corte costituzionale rappresenta un profondo smacco per la procura di Firenze, il cui metodo di indagine era stato peraltro già bocciato varie volte dalla Corte di cassazione, ma anche per colui che ha rappresentato la procura in giudizio, cioè Andrea Pertici, oggi costituzionalista di riferimento della segretaria del Pd Elly Schlein. Cioè del partito che all’epoca della vicenda votò compatto a favore del conflitto di attribuzione.