(foto LaPresse)

poetic justice

Noi infedeli che contempliamo la punizione mitologica di Davigo

Guido Vitiello

Il magistrato riponeva aspettative esorbitanti nella pratica processuale che avrebbe dovuto sceverare il bene dal male. Ora, da giudice in pensione, si ritrova a essere colpevole in quel rito che ha officiato per decenni al di qua dell’altare

La condanna in primo grado di Piercamillo Davigo è un arazzo così magnificamente intessuto di poetic justice – contrappassi, ironie, rovesciamenti tragici, corrispondenze numerologiche in odore di cabala, enigmatiche correlazioni – che quasi si rischia, ad aggiungervi il ricamo di un’altra coincidenza, di guastarne per sovrabbondanza la perfezione allegorica. Eppure due piccole frasi vaganti, come fili di ordito e di trama, si incontrano sul telaio per rivelare una figura inattesa. Della prima – “Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti” – Davigo è vittima due volte: perché gliela rinfacciano tutti, dopo la sentenza; e perché è in effetti, come lui stesso lamenta, una frase tratta a forza dal contesto originario e trasformata nel brocardo allucinato di un inquisitore (non che il contesto la rendesse più condivisibile, ma tant’è). La seconda frase è di nuovo una citazione fuori contesto, ma stavolta ad averla estrapolata e messa in circolo nel passaparola giornalistico è Davigo stesso: “Il vero innocente non è colui che viene assolto, bensì colui che passa nella vita senza giudizio”. E’ una frase dello scrittore e giurista Salvatore Satta, presa dal Mistero del processo. Davigo ama citarla nelle interviste, nei libri, nelle conferenze: annuncia ogni volta di attenersi al “monito” di Satta. Quale sia questo monito, non è dato capirlo; immagino che Davigo la legga come una variante forbita del suo più spicciolo “male non fare, paura non avere”: l’innocente non solo è assolto, ma se è innocente fino in fondo neppure incontra sulla propria strada la legge.

 

Che una mente eccelsa come quella di Satta potesse infilare tra le pagine di un saggio di metafisica del processo questo pensierino filisteo è quanto meno stridente; e infatti, restituendo la frase al suo contesto, notiamo subito che Davigo ne ha soppresso la prima parte, diciamo pure che le ha tagliato la testa: “Ciascuno è intimamente innocente: e il vero innocente non è colui che viene assolto, bensì colui che passa nella vita senza giudizio”. Gli uomini abborriscono il giudizio – “quest’atto senza scopo che hanno messo al centro della loro esistenza” – perché il processo è esso stesso la pena, “la sola e vera pena”. Gesù volle morire passando per vie giudiziarie, scrisse Pascal, perché la morte con i crismi della giustizia è tra tutte le morti la più ignominiosa. Così, un ricamo d’ironia si aggiunge al nostro arazzo. Perché in questo atto senza scopo, senza sbocco e senza speranza che è il processo, Davigo ha riposto – come uomo di Chiesa più che come uomo di fede – la causa della sua vita, nonché aspettative esorbitanti; pensando, all’opposto di Satta, che quel rito avesse un senso al di fuori della liturgia procedurale, che potesse sceverare il bene dal male e non solo perpetuare il suo stesso male, un male necessario ma terribile. Ora, da giudice in pensione, si ritrova – sia pure “intimamente innocente” – a essere costituito come colpevole da quel rito che ha officiato per decenni al di qua dell’altare.

 

Ed ecco che dietro alle due citazioni orfanelle conviene calare il fondale di un altro contesto, Il contesto di Leonardo Sciascia, nella celebre pagina in cui il presidente della corte suprema postula l’inesistenza dell’errore giudiziario. L’errore è per definizione impossibile, perché è precisamente il rito del processo, foss’anche officiato dal più indegno dei sacerdoti, a transustanziare l’imputato in reo. I gradi del giudizio, la possibilità dei ricorsi e degli appelli, tutto questo sembra contraddire l’assioma, ma è una contraddizione che ha senso solo per chi assuma un’opinione laica, esteriore rispetto alla liturgia processuale. La punizione mitologica a cui è sottoposto Davigo è proprio questa: dover guardare per la prima volta la sua chiesa, le sue navate e i suoi altari, con gli occhi spaventati di un laico. Lui forse è troppo calato nel suo personaggio per esser colto dal lampo di un’agnizione tragica; ma noi, noi dalle parti degli infedeli, come potremmo non contemplare affascinati un arazzo così grandioso?

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