a brescia

La caduta del fustigatore Davigo, condannato per rivelazione di segreto d'ufficio

Ermes Antonucci

La condanna nei confronti dell'ex pm di Mani pulite chiarisce come (non) dovrebbe funzionare il rapporto tra segreto istruttorio e Csm

Dovessimo usare il suo lessico manettaro, dovremmo parlare di un colpevole che non l’ha fatta franca: il tribunale di Brescia ha infatti condannato l’ex magistrato Piercamillo Davigo a un anno e tre mesi di reclusione (con pena sospesa), con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. La sentenza ha accolto la richiesta della pubblica accusa, che aveva chiesto la condanna dell’ex pm simbolo di Mani pulite per essersi fatto consegnare dal pm milanese Paolo Storari i verbali segreti dell’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, e per poi averne rivelato il contenuto in maniera informale a una decina di soggetti, tra cui il pg della Cassazione Giovanni Salvi, il vicepresidente del Csm David Ermini, svariati componenti del Csm, il politico Nicola Morra e le sue segretarie.

 

Visto, però, che il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva si applica a tutti i cittadini, incluso Davigo, occorre evidenziare la natura soltanto provvisoria della sentenza pronunciata dal tribunale di Brescia. L’ex componente del Csm è ancora un innocente, nonostante egli non abbia mai mostrato questa elementare forma di garantismo in tutta la sua carriera togata e mediatica.   

 

La sentenza di Brescia, per quanto di primo grado, stabilisce un principio molto semplice: non è normale, ma soprattutto non è lecito, farsi consegnare da un collega nel salotto di casa propria i verbali secretati di un’indagine in corso. In caso di problematiche durante le indagini, esistono procedure formali che non ammettono deroga, proprio perché in caso contrario lo stato di diritto su cui si fonda il nostro paese si trasformerebbe in una giungla senza regole. “Piercamillo Davigo si erge a paladino della giustizia per tutelare la legalità, ma l’unica legalità violata è stata commessa nel salotto di casa sua”. Con queste parole il pm di Brescia Donato Greco aveva chiesto, nella requisitoria finale del processo, la condanna per Davigo a un anno e quattro mesi. 

 

“Davigo – evidenziò il pm Greco – dice a Storari il falso dicendo che su quegli atti il segreto non è opponibile al Csm, ci deve essere un interesse del Consiglio, invece Storari lamenta un’inerzia, di cui non c’è traccia se non nelle sue parole, su cui il Csm non ha voce in capitolo”. Non solo: le notizie al Csm “devono passare da un canale ufficiale, non nel corso di un colloquio con un singolo consigliere del Csm nel salotto di casa sua e con la consegna di una chiavetta Usb”. Il pm sottolineò come l’intervento “ponte” operato da Davigo nei confronti dei colleghi avesse avuto come effetto quello di “allargare la platea dei destinatari di quella rivelazione”.

 

A essere danneggiato dalla diffusione di quelle informazioni fu soprattutto l’allora consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che si è costituito parte civile nel processo (in suo favore il collegio giudicante ha condannato Davigo a un risarcimento di 20 mila euro). “Ad alcuni dissi che il nome di Ardita  era tra quelli inseriti nella presunta loggia Ungheria. Ritenevo di doverlo fare”, ha detto Davigo in un’udienza del processo, ammettendo di fatto di aver usato dei verbali segreti contenenti dichiarazioni non ancora verificate per delegittimare il suo ex amico e compagno di corrente Ardita. Non solo. Davigo vagliò anche l’affidabilità dello stesso Amara. A raccontarlo è stato il consigliere Giuseppe Cascini lo scorso novembre: “Mi ero occupato di un’indagine per la procura di Roma in cui compariva anche l’avvocato Amara. Davigo voleva sapere se fosse affidabile o meno”.

 

“Davigo fece circolare pattumiera senza fondamento contro di me al Csm”, aveva affermato Ardita davanti ai giudici, accusando l’ex collega ed ex compagno di corrente di aver diffuso al Csm documenti che non solo erano coperti da segreto investigativo, ma risultavano anche palesemente calunniosi.

 

L’importanza della sentenza bresciana, se pur di primo grado, sta proprio nell’aver riconosciuto l’illecita condotta di Davigo attorno a del materiale giudiziario segreto ed evidentemente calunnioso. Se la condotta di Davigo fosse stata ritenuta lecita, infatti, qualsiasi pm avrebbe ritenuto legittimo inviare atti segreti d’indagine a un consigliere del Csm, e quest’ultimo avrebbe ritenuto legittimo usare questo materiale per regolare i conti con un collega ormai ritenuto avversario. In altre parole sarebbe stato messo in pericolo il funzionamento stesso di un organo di rilevanza costituzionale come il Csm.