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Uno studio di 100 anni fa può insegnarci a gestire l'epidemia tra i detenuti

Sofia Ciuffoletti

Nel 1919 il carcere americano di San Quentin divenne uno dei focolai della spagnola: il punto oggi è capire come evitare il ripetersi di certi errori

Il primo studio epidemiologico in carcere (Stanley LL, Influenza at San Quentin Prison, California, Public Health Rep, 1919) fu elaborato nel 1919 a seguito di ben tre ondate epidemiche della cosiddetta influenza spagnola (il virus H1N1), verificatesi  nel carcere di San Quentin, nello stato della California. La disputa sull’origine del virus non ha ancora trovato composizione, ma a dispetto del nome (attribuito  per via della mortalità devastante che il virus ebbe in Spagna – un paese che tra l’altro non era in guerra – e perché si cominciò a parlare di questa malattia solo quando a esserne colpito fu il re di Spagna) gli Stati Uniti sono stati uno dei centri di maggiore diffusione. La spagnola è stata la prima grande pandemia del XX secolo, considerata la più grave forma di pandemia della storia dell’umanità (anche sul numero di morti non c’è totale accordo in letteratura, con stime che variano dai 20 ai 50 milioni, con circa 500 milioni di contagiati).

  

Lo studio del 1919 descriveva come, a fronte del primo caso ufficialmente registrato di influenza spagnola, nel marzo 1918 (verificatosi in un campo militare di addestramento delle truppe che si preparavano a sbarcare in Europa, Camp Funston, in Kansas), il virus avesse colpito il carcere di San Quentin dopo circa un mese (il primo caso accertato nel penitenziario fu del 13 aprile 1918). Insieme al caso degli operai delle fabbriche di auto a Detroit, quello dei detenuti di San Quentin fu considerato uno dei focolai che portarono alla diffusione massiccia del contagio sul suolo statunitense (e conseguentemente in Europa, dove il virus viaggiava insieme alle truppe che giungevano in aiuto agli Alleati sul finire della Prima guerra mondiale).


 

Lo studio è interessante per alcune ragioni. In primo luogo ci dice che i contesti chiusi come le istituzioni totali possono essere inizialmente preservati dal contagio, ma quando vengono colpiti la diffusione è rapida. Stanley stimò che, già dopo 10 giorni, circa la metà dei 1.900 detenuti del carcere presentava sintomi e probabilmente il tasso di contagio finale si attestò intorno al 27 per cento dell’intera popolazione penitenziaria. Tra il 13 aprile e il 26 maggio, erano  ospedalizzati 101 detenuti, 7 dei quali con polmoniti gravi, mentre i morti accertati furono tre.

 

Il contagio arrivò in carcere attraverso un detenuto malato trasferito a San Quentin dalla County Jail di Los Angeles e divampò in brevissimo tempo (l’incubazione dell’influenza spagnola variava da 48 a 60 ore circa, contrariamente ai 14 giorni del Covid-19). Il “paziente 1”, infatti, che accusava già sintomi influenzali fu lasciato nel cortile comune, gli fu permesso di mangiare nella sala mensa e di dormire insieme ad altri 20 nuovi arrivati, prima di essere ospedalizzato con febbre altissima. Da quel momento i contagi si moltiplicarono, in particolare attraverso  la proiezione dei film  della domenica, tenuti in una enorme sala mal ventilata e chiusa. Ben presto circa 700/750 persone di ammalarono, molte di queste necessitavano di ospedalizzazione, impossibile per mancanza di posti e strutture.

 

In estate sembrò che la malattia fosse stata debellata, ma la seconda ondata arrivò a ottobre, di nuovo portata da un nuovo detenuto  giunto da Los Angeles, sano al momento dell’arrivo, ma con sintomi dal secondo giorno dell’ingresso a San Quentin. Si cominciò a pensare di usare delle mascherine, che però non c’erano, ragione per cui furono cucite con la stoffa dei sacchi della farina. I casi furono isolati e gli spettacoli e gli eventi comuni vietati.

 

In novembre, di nuovo a causa di un detenuto (sano al momento dell'ingresso, ma che aveva probabilmente contratto il virus durante il trasporto) trasferito  dalla County Jail di Colusa, che nel frattempo era diventata un altro focolaio, si manifestò una terza ondata di contagi: le risposte furono isolamento, quarantena, ospedalizzazione. A dicembre, il detenuto G. fu trasferito da San Quentin al carcere di Folsom, fino a quel momento immune da casi di H1N1. Prima del trasferimento, fu posto in quarantena per 4 giorni senza manifestare i sintomi. Arrivò al carcere di Folsom il 23 dicembre con febbre e sintomi evidenti di contagio da influenza spagnola. Folsom diventò un nuovo focolaio.

 

Lo studio di Stanley serve a capire moltissime cose della gestione di una epidemia in carcere, così come, a suo tempo, aiutò a studiare le stesse caratteristiche del contagio del virus influenzale H1N1. Per esempio il tempo di incubazione, il tipo di contagio per droplets, la necessità dell’uso di mascherine adeguate, la necessità di isolamento e quarantena, la necessità di agire con misure deflattive per tempo, così come la necessità di adeguati presidi sanitari e posti in strutture ospedaliere. Tutte cose che sono diventate anche per noi pane quotidiano. Quello che lascia di stucco, però, è che Stanley scrive nel 1919, 101 anni fa. Non abbiamo studiato.

 

Ma oltre a questo, lo studio ci dice anche qualcosa che forse capiremo solo più in là: cioè che i numeri non sono neutrali, la loro raccolta, la loro lettura non è neutrale. Mentre scrivo e mentre molti di noi sono confinati a casa, i detenuti rimangono praticamente le uniche persone sul suolo italiano a cui è “permesso” sconfinare di regione in regione, portando con sé il contagio. Così come nel 1919, un detenuto trasferito da San Quentin porta il contagio a Folsom nonostante la quarantena di 4 giorni, così molti detenuti vengono trasferiti da istituti contagiati ad altri (per alimentare così uno sfollamento pari a un gioco a somma zero), magari con un solo tampone negativo e si scoprono positivi solo all’arrivo nel nuovo istituto. Il punto non è più se si stia meglio in carcere o fuori. Il punto è come agire in prevenzione e come agire quando il contagio si presenta all’interno di una istituzione totale.

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