Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a Milano (foto LaPresse)

Se sei obeso e diabetico non sei a rischio in carcere, dicono a Pavia

David Allegranti

Il fronte di chi chiede di mandare ai domiciliari i detenuti non pericolosi si allarga sempre di più

Roma. Cinquantasei anni, detenuto, obeso (180 chili per 181 centimetri di altezza) e diabetico. Ma per il magistrato di sorveglianza di Pavia, dottoressa Ilaria Pia Maria Maupoil, non c’era bisogno di concedere al carcerato la detenzione domiciliare. Così, il 20 marzo, ha rigettato la richiesta “ritenuto che il paventato pericolo cui il soggetto sarebbe esposto in ragione delle descritte condizioni di salute rispetto al possibile contagio da Covid 19, non costituisce un elemento di incompatibilità con la detenzione carceraria, non essendovi indicazioni in merito a frequenza di contagio da Covid 19 maggiore in carcere rispetto che all’ambiente esterno”. Insomma, la dottrina Gratteri fa scuola ovunque, non è mero opinionismo televisivo. Il caso, segnalato dalla rivista specializzata Giurisprudenza Penale, ha però un lieto fine.

 

 

Il 31 marzo, quindi in tempi rapidi, il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto la detenzione domiciliare, in considerazione delle varie malattie croniche del carcerato, che nel corso della detenzione ha ottenuto 495 giorni di liberazione anticipata e che sarebbe dovuto uscire nel novembre 2020. Il tribunale ha ritenuto che “non si possa escludere che il soggetto sia a rischio in relazione al fattore età, alle pluripatologie con particolare riguardo alle problematiche cardiache, difficoltà respiratorie e diabete” e ha “rilevato che ad oggi la situazione risulta aggravata significativamente dalla concomitanza del pericolo di contagio”. In più ha ritenuto che “tali patologie possano considerarsi gravi”, con specifico riguardo al correlato “rischio di contagio attualmente in corso per COVID 19, che appare – contrariamente a quanto ritenuto dal Magistrato di Sorveglianza – più elevato in ambiente carcerario”. Di recente è stato lo stesso procuratore generale della Corte di Cassazione Giovanni Salvi – non esattamente un eversivo – a spiegare che “il rischio epidemico” nelle carceri è “concreto e attuale”: “Mai come in questo periodo va ricordato che nel nostro sistema processuale il carcere costituisce l’extrema ratio. Occorre, dunque, incentivare la decisione di ‘misure alternative’ idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere”. Secondo i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al 6 aprile sono circa 4 mila i detenuti usciti dagli istituti penitenziari da quando è iniziata l’emergenza sanitaria. Sono diversi i fattori, secondo l’analisi del Dap, che hanno inciso sul calo di presenze, tra cui anche l’esecuzione della pena nel domicilio dovuta all’applicazione delle misure del decreto Cura Italia (ma i dati sono aggregati e l’incidenza del decreto sembra essere bassa).

 

 

Comunque non basta, come osserva l’Associazione Antigone: “In carcere abbiamo bisogno di liberare 10 mila persone almeno mandandole ai domiciliari o in misure alternative, anche perché sempre più sono gli operatori e i poliziotti costretti a stare a casa in quanto risultati positivi. Se c’è tempo si rimedi e si prendano provvedimenti incisivi. Evitiamo che le carceri diventino le nuove Rsa”. Antigone si appella “a chiunque abbia a cuore la salute delle persone e la solidarietà affinché non si dia ascolto a chi dice – sono pochi ma influenti, pare – che in carcere si sta più sicuri e al riparo dal virus. Non è vero. Il carcere non è, al pari di tutte le strutture affollate, il luogo dove affrontare la pandemia. Si liberino tutti coloro che sono a fine pena, a prescindere dalla disponibilità dei braccialetti elettronici. Si liberino tutti gli anziani e i malati oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici prima che contraggano dentro il virus che potrebbe essere letale”. Si dia ascolto, dice ancora Antigone, a chi “le prigioni le conosce bene e non a persone che non hanno mai vissuto l’esperienza carceraria e non sanno cosa significhi respirare l’ansia e la tensione in quel contesto”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.