Ilaria Cucchi e i genitori in sit-in davanti al Palazzo di Giustizia di Roma con le foto di Stefano Cucchi (foto LaPresse)

L'ultima svolta del caso Cucchi. Cosa è successo in questi nove anni

Redazione

Francesco Tedesco, uno dei cinque carabinieri imputati, ha ammesso il pestaggio del geometra trentenne morto il 22 ottobre 2009 nel reparto carcerario dell'ospedale Pertini di Roma

C'è stata una svolta oggi, durante la nuova udienza davanti alla Corte d'Assise nel processo sul caso di Stefano Cucchi, di sicuro la più nota tra le "morti carcerarie". Il geometra trentunenne morì nove anni fa, sei giorni dopo essere stato arrestato per spaccio di droga dai carabinieri che, secondo la procura, lo avrebbero massacrato di botte. All’inizio dell’udienza il pubblico ministero Giovanni Musarò ha riferito che Francesco Tedesco, uno dei cinque militari imputati per la morte di Cucchi, ha confessato quanto successo durante e dopo l'arresto. Tedesco ha indicato come autori del pestaggio due colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, accusati con lui di omicidio preterintenzionale e di abuso di autorità. Spiega il pm che Tedesco ha rivelato che il maresciallo Roberto Mandolini "sapeva fin dall'inizio quanto accaduto" e che anche il carabiniere Vincenzo Nicolardi era a conoscenza del pestaggio e, "quando testimoniò nel primo processo, mentì perché sapeva tutto e ne aveva parlato in precedenza con lui". Musarò ha spiegato che il 20 giugno scorso Tedesco ha presentato una denuncia in procura sulla vicenda, a seguito della quale, tra luglio e ottobre è stato sentito tre volte dai magistrati. È la prima volta che una delle persone accusate nel processo ammette di aver assistito al pestaggio che si pensa abbia causato la morte di Cucchi.

  

 

Il pestaggio

Nel corso di un interrogatorio reso lo scorso 18 luglio, i cui contenuti sono stati resi noti oggi in udienza, Tedesco spiega: “Fu un'azione combinata. Cucchi e Di Bernardo ricominciarono a discutere e iniziarono a insultarsi, per cui Di Bernardo si voltò e colpì Cucchi con un schiaffo violento in pieno volto. Allora D'Alessandro diede un forte calcio a Cucchi con la punta del piede all'altezza dell'ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: 'Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete'. Ma Di Bernardo proseguì nell'azione – continua Tedesco nel suo interrogatorio – spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbattè anche la testa. La botta fu violenta, ricordo di avere sentito il rumore. Spinsi Di Bernardo – aggiunge Tedesco – ma D'Alessandro colpì con un calcio in faccia Cucchi mentre questi era sdraiato a terra”.

  

 

La nota scomparsa

C’è poi una annotazione di servizio redatta dallo stesso Tedesco il giorno della morte di Cucchi e da lui inviata alla stazione Appia dei carabinieri. Il documento “assolutamente importante per la ricostruzione dei fatti, è stato sottratto”, spiega il pm Musarò, e non ce n’è più traccia: “Dove sta?”.

 

“Il muro è stato abbattuto. Ora sappiamo e saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano e alla famiglia Cucchi” commenta su Facebook Ilaria, sorella della vittima. Stefano, romano di trentuno anni, è morto il 22 ottobre 2009 nel reparto protetto dell'ospedale capitolino Sandro Pertini. Da quel giorno sono accadute molte cose e anche le vicende giudiziarie, che si sono dipanate per questi nove anni, sono piuttosto complesse. Per raccontare gli ultimi avvenimenti è opportuno ripercorrere tutta la vicenda. 

       

  

L'arresto

Cucchi viene arrestato nella tarda serata del 15 ottobre 2009 nel parco degli Acquedotti, dopo essere stato colto in flagrante a cedere una bustina di hashish per 20 euro. Viene perquisito sul posto e addosso gli vengono trovate altre dosi di stupefacenti, 90 euro in contanti e dei farmaci antiepilettici. I carabinieri lo portano a casa dei genitori per una perquisizione che non dà alcun esito. Quella notte il giovane passa attraverso due diverse caserme dei carabinieri, prima nella Appia e poi in quella di Tor Sapienza. In questa, alle 4 di mattina, viene richiesto l’intervento del 118. Cucchi lamenta dolori in tutto il corpo ma all’arrivo del personale medico nella cella rifiuta di farsi visitare, rimane coperto e con il volto rivolto verso il muro. L’infermiere che lo visita riesce a incrociare il suo sguardo solo per pochi secondi e nota “degli arrossamenti” intorno agli occhi. Poco dopo viene portato al tribunale di piazzale Clodio per la convalida dell'arresto in direttissima. Non viene accettata la richiesta di affidamento in comunità terapeutica. Non si può dire se abbia pesato in questa decisione quanto scritto nel verbale di arresto: Stefano Cucchi, albanese senza fissa dimora. Si decide insomma per l'arresto. Ma alla fine dell'udienza le condizioni di salute del giovane sembrano già preoccupanti, tanto che viene fatto visitare dal medico del tribunale. Nelle ore successive entra in carcere e viene visitato nell’infermeria di Regina Coeli che dispone un immediato trasferimento al pronto soccorso del Fatebenefratelli per accertamenti. Nel certificato si trova scritto: “Alla visita il detenuto riferisce 'caduta accidentale ieri dalle scale'”. Cucchi rifiuta il ricovero ma, il giorno dopo, le sue condizioni di salute lo portano a sottoporsi ad altre visite, fino al ricovero nel reparto detentivo del Pertini. I familiari per sei giorni non ricevono notizie di Stefano e lo rivedono solo una volta morto. 

Il 29 ottobre 2009, nel corso di una conferenza stampa vengono distribuite alcune foto scattate prima dell'autopsia di Cucchi: il corpo smunto, ematomi sul viso, un occhio aperto e uno chiuso, un livido nero sul coccige e vari segni su tutto il corpo. La morte è stata il risultato di una serie di azioni ed eventi concatenati tra loro, come ha dimostrato l’autopsia effettuata dai medici legali della famiglia Cucchi, Vittorio Fineschi e Cristoforo Pomara, sulla salma riesumata di Stefano. I consulenti di parte dicono che la morte “è addebitabile a un quadro di edema polmonare acuto in soggetto politraumatizzato ed immobilizzato”. I periti evidenziano che Cucchi non aveva mai manifestato patologie cardiache, come confermato dai sanitari di turno in quei giorni. Al suo ingresso in ospedale dunque Cucchi non presentava patologie ma solo fratture a causa delle violenze che aveva subìto. Avrebbe avuto bisogno di cure, invece nel giro di una settimana, arriva a pesare da 52 a 37 chili.

  

I processi

All'inizio le indagini portano alla contestazione del reato di omicidio colposo per tre medici del Pertini e del reato di omicidio preterintenzionale per i tre agenti di polizia penitenziaria che tennero Cucchi in custodia nelle celle del tribunale di Roma prima dell'udienza di convalida. Il 27 novembre 2009 una commissione parlamentare d'inchiesta conclude che Stefano è morto per abbandono terapeutico. Nell'aprile 2010, le indagini si concludono con uno stravolgimento dei capi di imputazioni: la procura di Roma contesta ai medici del Pertini il favoreggiamento, l'abbandono di incapace, l'abuso d'ufficio e il falso ideologico. Agli agenti della penitenziaria lesioni e abuso di autorità. Tredici persone vengono rinviate a giudizio. 

  

Nel luglio 2012 la Corte d’Assise di Roma dà incarico a sei docenti universitari di redigere una perizia per accertare le cause esatte della morte. Il 13 dicembre 2012 la “super perizia” conclude che “la causa della morte di Stefano Cucchi, per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche, va identificata in una sindrome da inanizione [cioè] una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi”. Cucchi sarebbe morto di fame e di sete. Questa ricostruzione, però, non convince la famiglia della vittima e i suoi avvocati, che chiedono venga riconosciuto il nesso di causalità tra le lesioni inferte e la morte. Nel giugno 2013 la sentenza di primo grado assolve gli agenti della penitenziaria per non aver commesso il fatto con formula dubitativa, in quanto le prove della loro colpevolezza sarebbero insufficienti o contraddittorie. I sei medici vengono condannati per omicidio colposo mentre gli infermieri vengono assolti per non aver commesso il fatto.

 

Nel settembre 2014 comincia il processo d’appello e il 31 ottobre tutti gli imputati sono assolti: gli infermieri perché il fatto non sussiste, gli agenti di polizia penitenziaria per insufficienza di prove che abbiano commesso il fatto e i medici, condannati in primo grado per omicidio colposo, per insufficienza di prove che il fatto sussista. La famiglia Cucchi ricorre in Cassazione che dispone il parziale annullamento della sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici. Il 18 luglio 2016, al termine del secondo appello i medici sono assolti perché il fatto non sussiste. Nell'aprile 2017 la Cassazione annulla la sentenza dell’Appello bis: i proscioglimenti vengono annullati con rinvio ad una nuova corte d’Appello, che sarebbe stata la terza ma che non si istituirà mai: il giorno successivo scatta la prescrizione del reato.

  

 

L'inchiesta bis

Su richiesta dei familiari, nel settembre 2015 la procura di Roma riapre un fascicolo d'indagine sul caso, affidandolo al sostituto procuratore Giovanni Musarò. Le indagini si rivolgono ai carabinieri presenti nelle due caserme dove è avvenuta l'identificazione e la custodia. Il 17 gennaio 2017, alla conclusione delle indagini preliminari, viene chiesto il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti dei militari dell'Arma Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di aver colpito Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni divenute mortali per una successiva condotta omissiva da parte dei medici curanti, e per averlo comunque sottoposto a misure restrittive non consentite dalla legge. I tre vengono sospesi dal servizio. Tedesco, insieme con Vincenzo Nicolardi e il maresciallo Roberto Mandolini, deve anche rispondere dell'accusa di falso e calunnia, per l'omissione nel verbale d'arresto dei nomi di Di Bernardo e D'Alessandro, e per l'accusa di aver testimoniato il falso al processo di primo grado, avendo fatto dichiarazioni che portarono all'accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità. Il 10 luglio 2017 i cinque carabinieri vengono rinviati a giudizio.

 

  

Le dichiarazioni di un altro carabiniere

A maggio 2018 l’appuntato scelto Riccardo Casamassima ha detto di aver avuto notizia del pestaggio poco dopo che era successo e ha accusato in aula i cinque colleghi: “Nell’ottobre 2009, il maresciallo Roberto Mandolini si è presentato in caserma: mi confidò che c’era stato un casino perché un giovane era stato massacrato di botte dai ragazzi, quando si riferì ai 'ragazzi', l’idea era che erano stati i militari che avevano proceduto all’arresto. Il nome di Stefano Cucchi come del massacrato di botte fu percepito dalla mia compagna, Maria Rosati (anche lei nei carabinieri, ndr) che era dentro quell’ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria”. Rosati, altra testimone, ha confermato: “Mandolini disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato”, che stavano cercando “di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno”. Casamassima ha detto che “il figlio del maresciallo Mastronardi, anche lui carabiniere, mettendosi le mani sulla fronte mi raccontò che nella notte dell’arresto vide personalmente Cucchi e lo vide ridotto male a causa del pestaggio subito. Disse che non aveva mai visto una persona combinata così”. Quando il pubblico ministero Musarò ha chiesto a Casamassima perché abbia “aspettato 4 anni e mezzo per parlare”, lui ha risposto: “Perché all’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva visto coinvolto in prima persona, ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali, e, provando vergogna per ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di rendere testimonianza, temendo ritorsioni che poi si sono verificate. Quando è uscito il mio nome sui giornali, i superiori hanno cominciato ad avviare contro di me procedimenti disciplinari, tutti pretestuosi”.

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