Stefano Cucchi

Stefano Cucchi e gli altri

Maurizio Crippa

“Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore) espone tredici storie così, e altre ne ripercorre. Recenti e finite sotto i riflettori dei media come quella di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi, vecchie e quasi dimenticate come quella di Franco Serantini, a Pisa nel lontano 1972, o che sono uscite dall’ombra grazie ai blog e al Web. Soprattutto, tutte uguali.

“Dicevano addirittura: la povera donna. / E intanto picchiavano suo figlio”.

Charles Peguy, “Il mistero della carità di Giovanna d’Arco”.

 

 

Ho letto “Quando hanno aperto la cella” su invito di Luigi Manconi. E’ probabile che, diversamente, non l’avrei fatto. Non tanto per il corrivo “voltare la faccia dall’altra parte”, su cui moraleggia Gustavo Zagrebelsky nella prefazione. Piuttosto per la premonizione di un incontro impegnativo.

 

Non mi sono mai occupato, nemmeno per giornalismo, del carcere né di tutti quei “luoghi e modi della privazione della libertà” in cui lo stato esercita, o dovrebbe, la sua responsabilità quando mette le mani sul corpo delle persone. Non ho competenza né una sensibilità che vada oltre il senso civile, e il senso religioso del rispetto della vita umana, sempre e comunque, come mi è stato insegnato. Ma la garbata insistenza di Manconi era una spia, e mi ha sospinto anche più dell’argomento del libro. Che del resto è di quelli che si impongono da soli. “Quando hanno aperto la cella” – sottotitolo: “Stefano Cucchi e gli altri” – è un saggio-racconto, un libro bianco e insieme filosofico che espone – questo credo sia il verbo giusto: nel senso di portare alla luce e spiegare – fatti che sono al di là del possibile e del dicibile, eppure con ogni evidenza possibili nel nostro paese. Casi di cittadini che sono “entrati in una cella vivi e ne sono usciti morti”, come disse Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro dell’Interno, di uno di loro, Salvatore Marino.

 

Scritto da Luigi Manconi e Valentina Calderone, rispettivamente presidente e ricercatrice presso l’associazione A Buon Diritto, “Quando hanno aperto la cella” (Il Saggiatore) espone tredici storie così, e altre ne ripercorre. Recenti e finite sotto i riflettori dei media come quella di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi, vecchie e quasi dimenticate come quella di Franco Serantini, a Pisa nel lontano 1972, o che sono uscite dall’ombra grazie ai blog e al Web. Soprattutto, tutte uguali. E quasi tutte rimaste nella memoria solo grazie al dolore di madri, di mogli e sorelle. Pie donne, verrebbe da scrivere.

 

Ho iniziato a leggere portandomi dietro la domanda del perché Manconi, che sul Foglio spesso si addentra in quel territorio misto, quella zona grigia tra laici e cattolici che sembra spesso una terra di nessuno, le cui zolle sono la vita e la morte, Dio e la libertà, tenesse tanto alla mia lettura. “Un uomo che muore in carcere è il massimo scandalo dello Stato di diritto”. Questo ovviamente è un buon motivo per occuparsene per impegno politico, per scrivere un libro e anche per leggerlo. Ma già nelle prime pagine ho incontrato qualcosa d’altro, e l’impressione di trovarmi per le mani un libro inconsueto, e un format poco maneggevole. Lasciandosi introdurre in storie così, ci si trova subito davanti a qualcosa di superiore persino, se mi è concessa la piccola eresia, alla gravità del problema di “un uomo che muore in carcere” come “massimo scandalo dello Stato di diritto”. Ci si trova davanti all’uomo nella sua nudità. Che la morte non fa che saturare di senso, checché spesso se ne dica. “Quelle foto di Manuel Eliantonio. Il viso gonfio. Un occhio più sporgente dell’altro. La parte sinistra del volto viola. Il rivolo di sangue dalla fronte fin sul viso. Graffi e ferite sulle braccia”. Allora ho intuito che forse per me il livello di lettura richiesto non era tanto, o solo, la partecipazione a una causa civile. Quanto quello di confrontarsi sulla domanda che sorge a quel livello della vita individuale, della “nuda vita”. A quel livello della vita umana in cui Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Eyasu Habteab sono vittime che forse erano stati colpevoli, sono referti fotografici, cadaveri su un tavolo anatomico, reperti d’indagine, e di indagini il più delle volte non fatte per negligenza, occultamento, trascuratezza, abuso di potere. Per il predominare del “sistema della Menzogna, della Sordità, della Dissimulazione, dell’Occultamento”. Dopo essere stati corpi nella disponibilità altrui, del potere costituito. Eppure quel che ne emerge, giunti a questo livello di nudità, è la loro umanità, la loro individualità tutta intera. A quel livello della vita in cui la vita diventa una morte senza giustizia, che cos’è l’uomo? La domanda che si impone e ci accomuna è se l’uomo, a quel punto, è solo reperto anatomico, tutt’al più oggetto della compassione, della rabbia, della volontà di giustizia. O se mantiene, anzi misteriosamente e miracolosamente si riappropria, di una sua superiore, irriducibile dignità. Dopo che il corpo ha reso l’anima a Dio. E’ se c’è in queste condizioni, che allora ha senso discutere anche di tutto il resto, dell’inizio della vita e della sua fine. Della giustizia e dello stato.

 

[**Video_box_2**]Che farne poi, una recensione professionale? Dire al lettore che il saggio di Manconi e Calderone è un libro importante? Non è questo. Il libro lo è. Nasce da un lavoro serio e appassionato, materiali raccolti, vagliati con acribia. E rimontati con perizia scientifica, oltre che con passione. E’ un libro che non vuole essere tanto un pamphlet di denuncia, seppure indubbiamente lo è. Non solo un libro bianco, seppure ne ha la rigorosa documentazione. Non è solo un saggio di sociologia carceraria e sulla percezione sociale dei fenomeni di restrizione della libertà personale. Seppure è cruciale l’analisi dei meccanismi istituzionali che vi presiedono, e anche la misurazione di quanti (pochi) passi lo stato e le sue istituzioni abbiano fatto – almeno nell’ultimo quarantennio – per adeguarsi agli standard di giustizia, rispetto della dignità personale, trasparenza a cui nella società “fuori” siamo ormai abituati. La necessità di evolvere verso un “sistema del controllo sociale-formale” maggiormente articolato, definito.

 

Non è tanto di questo, però, che credo di essere stato invitato a leggere (e scrivere). Quello che mi ha colpito, fin dalle prime pagine, è che i tredici racconti così laicamente, scientificamente, anatomopatologicamente scritti hanno la forma di una pietà che mi è familiare. Se non fossero frutto degli sguardi di persone, presumo, soprattutto interessate al valore politico e civile del proprio lavoro, direi che hanno la forma di altrettanti Compianti. Le storie di Cucchi e degli altri, le testimonianze delle madri, di amici e conoscenti, di casuali “passanti” sotto il Golgotha che pietosi hanno assistito, e ora ne danno silenziosa testimonianza, sono raccontate in queste pagine come la fede e l’arte cristiana dei secoli passati hanno prodotto le sculture dei Compianti. Deposizioni (l’immagine fa a un certo punto capolino, a pagina 28) e Sepolcri. Ma, prima ancora, scene di vivi, in cui i personaggi attoniti si fanno testimoni attorno a un corpo innocente e al suo strazio. E ritorna il corpo. “Quel naso abnorme in mezzo alla faccia. I lividi che circondano gli occhi. Quella schiena striata e piagata. Il corpo che ha perso la sua compostezza, che non sembra più in asse”. Ci vuole forza per rigirarsi tra le mani e riguardarsi queste fotografie. Non solo per studiarle, ma per stargli davanti come, appunto, a un Compianto. A quei cristi ammazzati in una situazione in cui non avrebbero dovuto, quando erano consegnati alle “procedure della sorveglianza e della coercizione”. E non solo in carcere. Ragazzi ammazzati per strada all’alba, come Aldrovandi, o morti “per una birichinata” (così viene spacciato, al telefono, alla madre, l’asserito suicidio di Katiuscia Favero nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove Katiuscia non avrebbe dovuto nemmeno stare). Penso ai Compianti. Non solo perché sono poveri cristi, nel senso umanitaristico e un po’ banale che si dà all’espressione. Ma perché quei Compianti hanno insegnato per secoli, era la loro funzione, che tutti i morti, d’ingiustizia soprattutto, sono Cristo. Sono una dignità personale tale che più si scarnifica il corpo, più il medico legale seziona, più si sgrana la fotografia per carpirne il senso e più emerge nella sua integrità, inviolabile. Ciò che mi colpisce è la mossa umana, e intellettuale, che ha guidato gli sguardi (quasi sempre sguardi insostenibili) e il racconto. Una mossa laica finché si vuole, ma che non è solo politica, non solo sociologica, non solo del diritto e neppure del buon diritto davanti a quelle storie e a quei corpi. E’ una mossa che più scava nella nuda vita, nella cruda morte, e più non può fare a meno di acciuffarne l’anima, di renderle giustizia.

 

C’è una parola che forse nel libro non è scritta, ma vi scorre di continuo. La parola è scrupolo. Parola multipla. Lo scrupolo della documentazione. Lo scrupolo che ci si fa ad affrontare certi temi, a parlarne, a entrare nel privato (la privacy), persino a leggerne. A guardare e riguardare certe fotografie (che nel volume non ci sono, ma è come se ci fossero).  E’ lo scrupolo di una riflessione sulla “pornografia della morte”, così come è diffusa nella nostra società con tutte le sue Kay Scarpetta. Mentre invece “i corpi sul tavolo dell’autopsia sono radicalmente altra cosa dalla spettacolarizzazione della morte”. E’ la mancanza di scrupolo con cui troppe volte le autorità, e le persone che le rappresentavano, hanno agito. Omesso controllo, omesso soccorso. Violazione delle regole, incuria. Perdita di autocontrollo della forza. E’ il persistere di una concezione senza scrupoli dell’amministrazione della giustizia ogni qual volta nelle mani dello stato, del suo potere-dovere di sorvegliare e punire, finiscono persone che non hanno il potere di affermare il proprio buon diritto.

 

Quei Compianti ci ricordano che nel nostro stato di diritto persistono ancora calvari in cui l’inflizione della pena continua a essere “arte di sensazioni insopportabili”,  come la definiva Foucault. E che questo, paradossalmente, non fa che riproporre una domanda di giustizia che spetta ai corpi, e alle anime.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"