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Politica senza pm

Annalisa Chirico

Renzi e la profezia giudiziaria sul governo. Perché per un garantista è un errore giocare con le procure

Il “pizzino” di Matteo Renzi, come la “scossa” di Massimo D’Alema? Dopo anni di giustizia a orologeria, scopriamo la politica a orologeria. Un cortocircuito strambo, converrete. Tacciare i politici di uso politico della giustizia, specie se questi politici hanno fatto del garantismo un loro cavallo di battaglia, è un’autentica novità dopo un ventennio trascorso a discutere del contrario. Il magistrato che agita l’inchiesta è stato rimpiazzato da tempo dal politico che brandisce l’avviso di garanzia, lo scampolo d’intercettazione, la soffiata inquisitoria come il più fosco dei presagi. La nuage avant le déluge. Talvolta l’avvertimento è fondato, poggia su argomenti solidi e porta con sé una valanga di conseguenze; altre volte, invece, si rischia di prendere un granchio generando equivoci grotteschi o, peggio ancora, strumentalizzando l’azione di innocui magistrati.

  

Un esempio per tutti? Il caso siculo di una presunta intercettazione, rivelatasi inesistente, che nel luglio 2015 diventa la scintilla per invocare il passo indietro dell’allora governatore Rosario Crocetta. “Va fatta fuori come suo padre”, avrebbe detto il chirurgo Matteo Tutino, al telefono con il presidente della Regione, riferendosi all’ex assessore alla Salute Lucia Borsellino. Il fantomatico scoop de L’Espresso si rivela una balla colossale, la testata è condannata a risarcire Crocetta per quasi 60 mila euro. Nel pieno della burrasca, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi dichiara: “E’ il sintomo di un’altra anomalia italiana la tentazione di agganciare ogni tentativo di ribaltamento degli equilibri politici a qualche iniziativa della magistratura, come se la politica avesse sempre bisogno di un appiglio giudiziario cui attaccarsi, prima di muoversi”. Sarebbe meglio lasciar liberi i magistrati di operare senza interpretare ogni loro atto in chiave politica, senza trarne ogni volta deduzioni extragiudiziarie. La classe dirigente ne guadagnerebbe in forza e autonomia.

  

Nell’ultima diretta Facebook pre-vacanziera l’ex segretario del Pd, che ha saggiato in prima persona i frutti avvelenati dell’ingorgo politico-giudiziario, motiva così le truppe: “Presto toccherà di nuovo a noi. Conte, Di Maio e Salvini non mangeranno il panettone”. Renzi evidenzia i contrasti interni alla maggioranza sui dossier economici, con la legge di Stabilità che da settembre sarà il vero cronometro dell’azione di governo. Poi si spinge oltre. Secondo l’ex premier, due inchieste sarebbero destinate a terremotare l’esecutivo: il fascicolo dei pm genovesi che hanno scoperchiato la frode da 49 milioni di euro, risalente alla gestione leghista Bossi&Belsito; e l’inchiesta capitolina sul tweet-storm contro il capo dello Stato nella notte tra il 27 e il 28 maggio. “Io dico che a settembre o ottobre ne vedremo delle belle”, scandisce l’ex premier in un vaticinio che evoca sinistri echi dalemiani. Nel caso di D’Alema la bomba giudiziaria evocata era una inchiesta che ancora non conosceva nessuno mentre in questo caso le inchieste sono alla luce del sole. Ma le parole del leader maximo del 2009 a proposito del governo Berlusconi le ricordiamo tutti: presto “ci saranno scosse, ed è arrivato dunque il momento, per l’opposizione, di farsi trovare pronta e responsabile” (di lì a poco, dagli uffici tranesi, sarebbero filtratele conversazioni imbarazzanti dell’escort-gate alle cozze).

   

Nel 2015, sempre D’Alema, già presidente del Consiglio, già ministro degli Esteri e soprattutto già capo del Copasir, preconizza la crisi del governo Renzi non per uno sgambetto del Parlamento ma “per mano giudiziaria”. Le cose andarono diversamente: Renzi sceglie di dimettersi da Palazzo Chigi in séguito alla sconfitta referendaria. Eppure, sebbene il circo mediatico-giudiziario, da Cpl Concordia a Consip, non abbia risparmiato alcunché a lui e alla sua famiglia, l’ex premier farebbe bene a non avventurarsi sul terreno delle Cassandre giudiziarie. A Genova, dove il fascicolo “The family” ha incassato una condanna in primo grado, il prossimo 5 settembre il tribunale del Riesame deciderà sul sequestro dei fondi alla Lega. A Roma l’inchiesta del procuratore Pignatone muove i primi passi e, nonostante qualche vano tentativo di minimizzare (“una bolla di sapone”, per il Fatto quotidiano), l’ipotesi che dietro l’assalto social condotto da 360 profili falsi si celi una “manina” italiana è di per sé inquietante. Siano allora liberi i magistrati di condurre la propria attività senza sentirsi tirati per la toga, in un verso o nell’altro, dentro un’arena politica che deve lanciare idee nuove, non cupe profezie. Vale per tutti. Ma vale soprattutto per un leader politico che ha fatto della lotta contro il circo mediatico giudiziario un suo importante e giusto cavallo di battaglia.