Van Aert, Alaphilippe, Boaro, Mosca e le quattro dimensioni della Milano-Sanremo

Il belga vince la Classicissima battendo il francese allo sprint. Il veneto esplora il nuovo percorso, il piemontese con Daniel Oss provano a trasformare gli errori in novità

Giovanni Battistuzzi

Non aveva torto Alfredo Oriani quando diceva che la bicicletta è esplorazione perché avvicina l'altrove, lo rende prossimo e quindi incentiva la scoperta. Lo sa bene Manuele Boaro che dopo aver provato a farsi inseguire alla Strade Bianche e al Gran Trittico Lombardo, è riuscito a fuggire dal gruppo alla Milano-Torino e, presoci gusto, ha visto l'effetto che fa pure alla Milano-Sanremo. Tre giorni di infuturazione, tre giorni di avventura esplorativa davanti a tutti e prima di tutti, avanguardista della scoperta del mai visto, perché quelle zone la Classicissima l'avevano vista sempre e solo in televisione. Ripresa l'Aurelia, ritornata la tradizione, il gruppo ha inghiottito la fuga. Poco male, non c'era più niente da scoprire.

 

Se il ciclismo fosse sempre ricerca di nuovi scenari, allora le Classiche non avrebbero senso. E invece un senso ce l'hanno, permetto di riscrivere il già noto, lasciando ai corridori il compito di provare a renderlo novità, sperare che gli errori del passato possano essere invenzioni strabilianti. Così, mentre la strada lascia il mare per puntare al cielo, Jacopo Mosca prova a sfruttare la Cipressa per rinverdirne un po' i fasti passati. La buona volontà non sempre premia. E visto che i tempi sono questi e bisogna stare attenti a non discriminare alcunché, Daniel Oss si è preso la briga di rendere onore anche alla discesa della Cipressa. E già che c'era pure alla pianura marittima, sia mai che qualcuno possa avere qualcosa da ridire. Nemmeno l'ardore paritaristico ha però premiato.

  

Non aveva torto Alfredo Martini quando diceva che la bicicletta è una carezza e uno schiaffo. E che quasi sempre le due cose andavano assieme, erano inseparabili. Leggerezza e potenza. Lo sa bene Julian Alaphilippe che sul Poggio si è messo in testa di far vedere agli altri come carezza e schiaffo siano davvero una cosa sola. Ha prima chiuso su Vincenzo Nibali, poi ha dato continuato perché, a volte, per rendere chiaro un concetto è meglio essere soli. Il francese accarezza la strada, quasi levita su di essa, mentre alle sue spalle tutti si contorcono sul manubrio, arrossiscono di imbarazzo. Resta solo. Ma alle sue spalle il vuoto non si fa. Wout Van Aert è l'ultima resistenza alla lezione del maestro, l'ultimo appiglio a chi non crede alla amorevole violenza.

 

 

Perché la Milano-Sanremo non segue mai le lezioni date. Lascia a tutti la libertà di credere a quello che vogliono, poi impone la sua regola. La solita: un atto di fede. Credere e stringere i denti. E sperare. La Sanremo è una caccia. Prevede prede e branco, lepri e cani affamati. Poi sceglie. Wout Van Aert ha creduto e stretto i denti. Prima sul Poggio, poi sul rettilineo d'arrivo. Ha sperato, prendendosi la briga di guidare Julian Alaphilippe all'arrivo, fregandosi della regola che dice che se parti davanti, in volata arrivi dietro. A Sanremo le regole non contano.