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Girodiruota – GiroDiVino

Bianco, rosso e Bondone

Giovanni Battistuzzi

Verso la cima del monte che sovrasta Trento, il freddo, la neve e Charly Gaul riscrissero il Giro d'Italia del 1956. E per il gelo, quel giorno, pure la grappa finì

La diciassettesima tappa del Giro d'Italia 2020 doveva partire da Bassano del Grappa e arrivare a Madonna di Campiglio. La diciassettesima tappa di GiroDiVino (qui trovate tutte le altre puntate) è da leggere bevendo una bottiglia di 51.151 dell'Azienda agricola Francesco Moser, Trento.

  


 

Al mattino a Merano il cielo era color del piombo. Una poiana guardava dall’alto i colori del gruppo, planando pigra verso valle, per poi lentamente risalire, quasi danzasse in cielo per studiare le sue prede. Un avvertimento di sventura che si palesò in gocce gelide pochi metri dopo la partenza.  

 

Sul Costalunga l’acqua diventò nevischio, sul Rolle neve, sul Brocon arrivò pure il vento a far compagnia ai corridori che a gran voce e parecchio intirizziti chiedevano di farla finita lì. Vincenzo Torriani li guardò, valutò le loro richieste senza ascoltarle veramente. “Se la strada è libera si va avanti”, vociò per tagliar corto. 

 

A Trento il vento aumentò, la pioggia si trasformò in grandine, mentre verso la cima del Bondone a fatica i volontari e gli alpini riuscivano a tenere sgombra la strada dalla neve che sempre con più foga scendeva

 

Macchie lerce di fango iniziarono ad arrampicarsi verso la cima immerse in un bianco così intenso da sembrare irreale.  
Mano a mano che i corridori salivano i loro lineamenti perdevano umanità, si trasformavano in maschere ectoplasmiche che nemmeno il rossore della fatica riusciva a colorare. Chi era salito sul monte aveva sfruttato l’ospitalità pietosa di chi lì viveva per non morire congelato. Via di fuga che prese pure qualche corridore per evitare l’assideramento. Lungo la salita si vedevano “atleti vagare per la strada, come uomini perduti dal vizio dell'oppio, come chi ha tutti i sensi aboliti e par che navighi nel Nirvana. Atleti sbagliare le curve e andare a finire nei fossi, contro la gente, orbi e vinti dalla fatica. Abbiamo visto atleti piangere”, scisse Attilio Camoriano sull’Unità. 

 

Charly Gaul, il primo ad arrivare in cima al Bondone dei quarantatré superstiti (da Merano erano partiti in ottantasette), venne trascinato di peso all’interno del rifugio e buttato in una tinozza d’acqua bollente. Fiorenzo Magni, terzo all’arrivo a 12’15”, venne aiutato a scendere di bici perché non ce l’avrebbe mai fatto da solo. Le sei vasche che c’erano furono occupate seguendo l’ordine d’arrivo, per gli altri si optò per coperte, sedie davanti al camino e tazze di grappa calda. 

 

Donato Piazza, ventesimo a oltre mezz’ora, era entrato nella baita da pochi minuti. Continuava a tremare come una foglia al vento nonostante due coperte di lana grezza provassero a riscaldarlo. “Bere”, riuscì a dire. L’oste del rifugio, allargò le braccia con il volto bianco come un cencio: la grappa era finita, annunciò. Dopo un momento di scoramento generale, un uomo si avvicinò con una bottiglia di vino rosso, prese un bicchiere e iniziò a versargliene un po’. Donato Piazza, che era un ragazzone dal fare gentile e tranquillo, se ne fregò per una volta delle buone maniere, strappò di mano la bottiglia al signore e ci si attaccò. Ingollò sorsate enormi e tiepide. Una volta finita ne reclamò ancora. Buttò giù ancora due tre gargarozzate, poi abbracciò la bottiglia. Guardò sorridendo chi stava nella stanza. Chiese: “Quanto manca all’arrivo?”. Poi si addormentò. 

 


 

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