foto LaPresse

Il cuore del Lombardia è una mattata di Pinot (e Nibali)

Giovanni Battistuzzi

Lo sloveno Roglic tenta l'impossibile sul Muro di Sormano. Al francese riesce. Lo Squalo, che ha seguito la follia dei due, termina al secondo posto la classica delle foglie (poco) morte

Como. Di foglie morte quest’anno ce ne sono state poche tra Bergamo e Como. Quelle giuste per intuire che l’estate è finita, ma nemmeno poi tanto, e che l’autunno è il tempo degli arrivederci. O così almeno nel ciclismo. Perché dopo il Giro di Lombardia qualcosa c’è, ma è come non ci fosse. Corse al di là degli oceani, nel nuovo mondo a pedali, ma nella vecchia Europa il Giro di Lombardia si porta via tutto, saluta l’anno, manda per qualche mese in letargo le biciclette. Ritorneranno, come ogni anno, ma in un altrove nemmeno troppo lontano. “Ogni anno piange il cuore quando si arriva qui. Fortuna che ridono le gambe”, disse l’Avucatt Eberardo Pavesi.

 

Lo sa bene Johan Museeuw quanto cuore ci vuole per andare in bici, quanto il cuore batte a pedalare sulle strade a cui si vuol bene. Per lui erano le pietre delle Fiandre, in “quel Belgio che ha un cuore che batte a pedali”, ha raccontato ieri il Leone delle Fiandre. Era al Museo del Ghisallo per consegnare in dono alla struttura la sua maglia di campione del mondo conquistata a Lugano nel 1996. “E vedendo luoghi come questi si capisce come anche in Italia ci sia lo stesso amore”.

 

Lo sa bene Thibaut Pinot che è francese per nascita, ma che prova un insana passione per il nostro paese, soprattutto per queste zone. Sarà che a queste latitudini batte un cuore laghee e montano, un cuore ascensionale. Sarà che in Italia trova le ascese che piacciono a lui per pendenze e lunghezza. Sarà che l’esterofilia è qualcosa che può palesarsi pure al di là delle Alpi. Sarà che Pinot parla francese e sogna in italiano.

 

E i sogni, soprattutto quelli che si formano nel cuore, non sempre seguono le vie tradizionali, quelle della razionalità. Percorrono vie tutte loro, ogni tanto folli, sicuramente non consuete.

 

E decidere di tentare la sorte a quasi cinquanta chilometri dal traguardo è, almeno nel ciclismo odierno, qualcosa di non comune, una mattata d’antan, qualcosa che si vede ormai raramente, soprattutto in una corsa come il Lombardia.

 

La mattata è iniziata sul Muro di Sormano, su quei millenovecentoventi metri verticali che portano la corsa a superare i mille metri, grazie a Primoz Roglic. Poi alle spalle dello sloveno si sono palesati Vincenzo Nibali e Thibaut Pinot e la mattata è sembrata una follia piena di concretezza, si è trasformata in una meraviglia a pedali. L’italiano e il francese si sono infuturati verso l’arrivo da soli, si sono fatti riprendere da Roglic, prima, e da Egan Bernal, poi. Hanno condiviso aria in faccia e chilometri di fuga, poi hanno salutato nuovamente i colleghi e verso Civiglio sono ritornati avanguardia solitaria. Nibali e Pinot, Pinot e Nibali, insieme per quattro chilometri con il naso all’insù. Sembrava la coppia giusta, quella buona per dividersi la testa sino a Monte Olimpino, l’ultima ascesa di giornata. Ma negli ultimi trecento metri della penultima erta lo Squalo si è bloccato, ha lasciato il passo, si è trovato inseguitore. Una piccola cottaa improvvisa, forse una cambiata sbagliata, certamente la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Peccato. Cinquanta, cento, trecento metri che si sono trasformati in decine di secondi, un tempo incolmabile. Pinot ha continuato solo, si è gettato in discesa come forse mai aveva fatto, inseguendo la lucida follia della solitudine che conduce all’apoteosi.

 

Pinot sbuffava la fatica, sorrideva per l’emozione di essere solo al comanda, cercava di allontanare l’idea della beffa. All’ultimo chilometro ha ricercato le mani della gente, è stato invaso dalla gioia di aver realizzato quello che voleva, quello che sognava: il Lombardia, il suo Lombardia, una mattata bellissima.