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Il Giro di Lombardia è un addio e una speranza

Giovanni Battistuzzi

È l'ultima grande corsa dell'anno, l'ultima possibilità di rimediare a una stagione storta. Eppure molte grandi storie ciclistiche sono sbocciate durante la Classica delle foglie morte

Come quando Antonio Negrini aveva deciso che quel giorno non sarebbe neppure partito e l'ultima corsa della sua carriera l'aveva già disputata, ché non aveva senso continuare a fare la vitaccia da atleta per non raccogliere nulla e senza neppure la certezza di un contratto per l'anno successivo. Quel giorno, quel 23 ottobre del 1932 lo misero sulla sella a forza di insulti. E a forza di sberle lo fecero riprendere dalla sorpresa quando a Milano si ritrovò con una ruota davanti a Domenico Piemontesi e Remo Bertoni.

 

Come quando Alfredo Sivocci, ds dell'Atala, va da Vito Taccone e gli dice che quel giorno si fa corsa per Armando Casodi e che lui deve imparare ancora a correre, che è al primo anno tra i professionisti, che mica è roba per lui una Classica del genere. E Vito si mette davanti ad Armando. Casodi però sul Ghisallo si ritira e Taccone non trova nient'altro di meglio da fare che seguire Imerio Massignan e Renzo Fontona volare sul Muro di Sormano. E così, finita la discesa, Sivocci sul lungo lago lo avvicina, gli dice di non deluderlo e lui un po' per stanchezza, un po' per ansia da prestazione si fa prendere dai crampi. Sivocci lo minaccia agitando un tubolare o forse qualcos'altro e Vito i crampi se li fa passare, recupera Massignan e Fontona, li stacca e a Como, quel 21 ottobre 1961 vince da solo. Per un secondo, ma da solo.

 

Come quando Bruno Landi si ritrova tra gli undici buoni per giocarsi la corsa, ma quando guarda i dieci che ha affianco capisce di non avere una sola possibilità di farcela. O meglio una ci sarebbe: tutti gli altri giù per terra. Perché con gente come Magni, Ockers, Fornara, Molineris e Conterno c'è poco da sperare, soprattutto per uno che fa il gregario ed è per giunta al primo anno tra i grandi. Gli altri vanno forte, fortissimo, e lui è appeso alle loro ruote sperando nel miracolo. Che avviene. Perché a una trentina di chilometri dall'arrivo un vigile che doveva segnalare il percorso si distrae, la macchina della giuria sbaglia strada e lui è il primo ad accorgersene. Per una trentina di chilometri pedala come un ossesso e la Milano del 25 ottobre 1953 se la ricorderà per sempre: primo.

 

Come quando a Monza, al mattino del 19 ottobre 1991, Sean Kelly si presenta alla partenza con una faccia lunga e scura che non sembrava nemmeno lui, quasi si fosse in un attimo convinto che i giornalisti che lo davano finito da tempo avessero davvero ragione. Pedala due chilometri e già si stacca, lo riportano dentro a fatica e lui dice che vuole ritirarsi. Sullo strappo di Galbiate si ristacca e lo riportano ancora in gruppo a fatica e lui ripete di volersi ritirare. Sul SuperGhisallo perde le ruote dei migliori nuovamente, ma nessuno lo aspetta. E lui allora si arrabbia, quasi fosse lesa maestà, recupera i primi e in discesa è davanti a tutti assieme a Rezze, Cornillet, Sorensen, Ballerini e Volpi alle spalle di Gayant partito in salita. Sul Lissolo segue proprio il francese e con lui si invola verso il traguardo, prima di batterlo sotto lo striscione d'arrivo. Prima di dire: “Era l'ultima occasione per far vedere che non sono un ex corridore. È andata bene. Adesso vediamo se proseguire o no”. Proseguirà e in primavera vincerà la Milano-Sanremo.

 

 

Perché ogni anno è sempre così. Il Giro di Lombardia è l'ultima occasione dell'anno, l'ultima Classica da provare a vincere, l'ultima corsa per provare a rimediare ciò che non è andato. È ultimo esame, ultimo saluto a tanti, ultima impresa se altre già sono state fatte. È ultimatum e ultima spiaggia.

 

Perché ogni anno è sempre così. Il Giro di Lombardia è anche teatro, un proscenio meraviglioso dove provare a portare in scena un nuovo spettacolo. È un crinale tra il vecchio e il nuovo, tra il già visto e l'ignoto, tra maschere già conosciute e arrembanti comparse che sognano di diventare primattori.

 

Perché ogni anno è sempre così. Il Giro di Lombardia è un addio e una speranza, è un cerchio che si chiude per poi riaprirsi sempre e dal quale non si sa mai cosa esca. Come fosse un cappello di mago, una magia di bicicletta. È la corsa delle foglie morte, indispensabile concime per quelle che verranno. È un'ambizione lacustre, che prende forma ascensionale.

 


 

Il Giro di Lombardia 2018

 

 


 

Il percorso del Giro di Lombardia 2019

 

 
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