Pantani, 20 anni dopo

C'era un ciclone tedesco e una speranza italiana, Pantani

Giovanni Battistuzzi

Jan Ullrich vent'anni fa dominava la cronometro di Corrèze e rifilava oltre quattro minuti al Pirata che diceva: "Sono contento perché mi sono tolto il pensiero della crono". Intanto la Festina salutava

La Corrèze si trova a ovest del Massiccio centrale e quando il tempo è sereno e il cielo è terso si vedono all'orizzonte i Pirenei. Quando il vento proviene da lì, da sud-ovest, porta nuvole cariche d'acqua che con il caldo della pianura se va bene piove, se va male è tempesta.

 

Quel giorno, quel 18 luglio del 1998 i Pirenei erano però ancora distanti e di vento quasi non ce ne era. Il ciclone però era arrivato lo stesso. Un ciclone tedesco, rosso di capelli e con le lentiggini in volto. Uno che faceva di nome Jan e cognome Ullrich e che a 24 anni, l'anno prima aveva già vinto un Tour de France e che prometteva di non levarsi dal gradino più alto del podio di Parigi per diverso tempo. Sulle collinette della Corrèze, nel Parc Naturel Régional de Millevaches en Limousin, quel ciclone aveva sparigliato tutto e tutti. I distacchi si contavano in minuti. Eppure le facce degli avversari erano meno abbacchiate di quello che ci si poteva attendere. Anzi alcune erano quasi sollevate, come se quel ciclone fosse giunto a Corrèze, non la regione bensì il paesino, fosse arrivato un po' più scarico di quello che ci si poteva attendere.

 

Non è che Marco Pantani sorridesse a leggere sul foglio dei distacchi a fine della cronometro quei 4'21" di scoppole prese e quei 5'04" di ritardo in classifica generale, ma non se ne era crucciato nemmeno poi tanto, ché di momenti più brutti ne aveva passati. "Mi sono impegnato ma senza spendere tutto, ho corso vicino alle mie possibilità ma non come a Lugano. Sono contento perché mi sono tolto il pensiero della cronometro. Arrivo alle salite con i cinque minuti dell'anno scorso, ma con una cronometro in più, e c'è differenza. Un anno fa, erano solo cadute".

 

 

Mancavano due giorni ai Pirenei, due tappe che nulla avevano da dire se non parole di attesa per scenari montani di battaglia. Mancavano due giorni ai Pirenei e Marco non ci pensava. O così almeno diceva in pubblico: "Sperare sì ma non troppo, non aspettatevi chissà cosa sulle salite. Io so che sono venuto qui dopo aver vinto il Giro e altri al posto mio sarebbero stati a casa. Qualcosa farò, ma punto più sul Tour del '99". Si godeva il momento, senza pensieri almeno apparenti. Poi però sentiva quei nomi duri e aspri, che sembravano uscire da un romanzo d’appendice o di genere, giallo: Aubisque, Aspin, Peyresourde, Mente, Port, Porte d'Aspet, Plateau de Beille, Tourmalet, mica male Tourmalet. Quei nomi non gli dispiacevano affatto. Come non gli sarebbe affatto dispiaciuto dare una lezione a tutti quei dottoroni di ciclismo che davano ormai per fatta la vittoria del rosso tedesco.

 

Pantani guardava i Pirenei e non vedeva avanzare il vento. Farà bello si disse. Sapeva benissimo che il peggio era alle spalle, che il peggio in ogni caso li avrebbe seguiti almeno sino a Parigi e forse oltre.

 

Quel pomeriggio di 20 anni fa infatti le nubi erano di altra natura, chimiche, e gravitavano su Varetz, un'ora da Meyrignac, città di partenza della settima tappa del Tour de France. Lì, al Castel Novel, hotel da "camere in stile Luigi XV. Ristorante che propone insalate di astice, zuppa di funghi e ciccioli d' anatra, storione in cocotte, ma nessuno ci bada", come scriveva Gianni Mura su Repubblica, c'era la Festina e tutto quello che pioveva sulla squadra, cioè accuse, testimonianze, ammissioni e mezze ammissioni. Ore e ore di trattative tra organizzatori e corridori per convincerli a starsene a casa. Virenque e compagni volevano presentarsi lo stesso all'avvio, li fecero capire che era meglio di no.  

 

 

"Ci siamo ritirati per le pressioni ricevute ma non siamo stati trovati positivi. Viva il Tour e ringrazio il pubblico che continua a sostenerci", dirà lo scalatore francese. 

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