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Nibali si è ritirato. Il Tour e la perdita del buon senso

Giovanni Battistuzzi

Il corridore italiano si è fratturato una vertebra dopo essere caduto (forse a causa di un tifoso, forse a causa di una moto) sull'Alpe d'Huez. Le nostre strade, la Grande Boucle e i ciclisti considerati sempre più corpi estranei. Anche nel ciclismo

Vincenzo Nibali lascia il Tour de France con un vertebra fratturata e un rimpianto grosso quanto l’Alpe d’Huez. Perdere la possibilità di provare a conquistare quanto meno il podio di una grande corsa a tappe per una caduta ci sta, fa parte del mestiere del ciclista. Perdere questa possibilità perché la stessa grande corsa a tappe non è mantenere l’ordine pubblico è invece qualcosa di difficile da tollerare. Questo è successo nel corso dell’ascesa all’Alpe, questo è stato quello che si è potuto vedere per tutti gli ultimi tredici chilometri e ottocento metri che hanno condotto i corridori all’arrivo.

 

La salita conclusiva si è trasformata in un circo nel quale tutto sembrava lecito. E mentre i ciclisti tentavano di fare il loro, ossia di rendere interessante una frazione alpina con scatti e tentativi di assolo, attorno a loro chi doveva garantire la loro incolumità latitava. Latitavano i volontari che dovevano tenere a bada i tifosi, latitavano i gendarmi che dovevano coordinare i volontari, latitavano i mezzi dell’organizzazione che dovevano far spazio ai corridori. In tutto questo abbondavano però le moto, quelle dei fotografi, della televisione, della gendarmeria che senza motivo non precedevano i ciclisti, ma si mescolavano a loro. 

 

Latitava soprattutto il buon senso di chi dice di amare il ciclismo e che invece a lato, ma nemmeno poi troppo, delle strade si piazza per correre accanto agli atleti, smartphone in mano per filmarsi, fotografarsi, immortalarsi a pochi centimetri da chi fa una fatica boia per staccare gli altri. O che sale in montagna con l’idea che un fumogeno possa fare spettacolo, colore, possa rendere migliore la resa della tappa.

 

  

Forse non ha colpe l’organizzazione del Tour de France per quello che è successo a Nibali. Forse non hanno colpe neppure i tifosi, fortunatamente non è successo niente ai corridori, fortunatamente non è dei tifosi la colpa di quanto occorso allo Squalo. Non di tutti, almeno, soltanto di qualcuno. Forse la colpa non è di nessuno e si è trattato davvero, come ha deciso la giuria, di un banale incidente di gara, uno di quelli che possono succedere, che la corsa è corsa e mica è facile controllarla in modo perfetto, siamo pur sempre su strade aperte al pubblico, mica in uno stadio.

 

Forse un colpevole unico non c’è, troppo facile d’altra parte puntare il dito contro qualcuno e fregarsene del contesto. Perché è il contesto ad avere le sue colpe. E il contesto è quello solito, quello che possiamo osservare non solo in corsa, ma soprattutto sulle strade. Quelle che se c’è una bici è una rottura per le macchine, perché va piano, e una rottura per i pedoni, perché va forte. Quelle nelle quali i ciclisti sono una seccatura, un corpo estraneo.

 

I ciclisti forse stanno diventando un corpo estraneo anche nel ciclismo. Lo si vede in corsa quando vengono centrati dai mezzi che dovrebbero corrergli accanto. Lo si vede nei sacchetti di urina lanciati addosso a chi non sta simpatico, agli insulti che si prendono certi atleti, alle polemiche che si mettono in piedi quando vanno troppo piano o alle illazioni che si fanno quando vanno invece troppo forte.

 

Forse si sta perdendo di vista che questo è uno sport infame, dove la fatica è enorme e i sacrifici sono altrettanto grandi. Forse si sta perdendo di vista che su quelle biciclette ci sono uomini e che come tutti gli altri uomini hanno le loro fragilità, i loro limiti, le loro peculiarità. Forse si sta perdendo di vista che questo è solo ciclismo e di suo è sofferenza. E perdendo di vista questo abbiamo perso di vista il rispetto.

 

Nibali se ne torna a casa. Il Tour continuerà anche senza di lui, ci farà divertire anche senza di lui. Almeno sino alla prossima idiozia.

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