Il Tour de France si sgambetta sull'Alpe d'Huez

Giovanni Battistuzzi

L'olandese Kruijswijk cerca l'impossibile sulla Croix-de-Fer, ma è sull'Alpe che tutto diventa farsa: Nibali buttato a terra da una moto, spettatori ovunque in cerca di selfie. Alla fine vince ancora Thomas

Lassù, a poco più di duemila metri d'altitudine, a segnare il passo c'è una croce di ferro inserita sulla sommità di un pilastrino in pietra. Sta lì dal 1900 da quando la mulattiera che portava in cima era stata sistemata, allargata, fatta strada. E' una croce piccola, quasi timorosa di occupare troppo spazio alla maestosità del panorama che circonda il passo del Col de la Croix-de-fer. L'hanno chiamato così sul finire dell'Ottocento perché suonava meglio, dava epica a una montagna tra le tante, certamente molto di più di Olle Pass. Ne ha viste tante quella croce di ferro. Due guerre mondiali, almeno una fornicazione, se è vero che lo stilista Pierre Balmain era stato concepito in cima al passo, venti passaggi di Tour de France. L'aveva scoperta per la prima volta Fermo Camellini nel 1947, ne ha riscoperto i tornanti Steven Kruijswijk oggi. Nel salire verso i 2.067 metri della cima l'olandese ha esplorato le Alpi francesi e se stesso, i suoi limiti, la follia del ciclismo. Aveva davanti a sé settantatré chilometri di vuoto, di solitudine, di fuga dall'ingordigia dei padroni, quegli uomini in bianco che segnano il tempo delle speranze. Settantatré chilometri che erano salita, poi discesa, prima di trovare quei nove chilometri di pianura infame che toglie la voglia di crederci e l'ultima salita, l'Alpe d'Huez. E su quel teatro di tornanti e asfalto che sale e non molla un metro, l'olandese ha provato l'arte della resistenza, del fachirismo, ha cercato l'improbabile. Non gli è riuscito.

  

 

Lì dove finiva l'illusione di Kruijswijk, iniziava il gran ballo degli scattisti. Poteva essere una festa, la migliore, perché l'Alpe d'Huez è un teatro montano come pochi ce ne sono, forse addirittura troppo perfetto per essere reale. E' diventa una gincana tra il meglio e il peggio di quello che il Tour de France sa offrire.

 

L'Alpe d'Huez e l'incidente a Vincenzo Nibali

Il sipario era stato tirato su, il palco era illuminato, il palcoscenico era tutto per Romain Bardet, francese da salita che provava a conquistarne quella da cartolina. Egan Bernal, apripista di Chris Froome e della maglia gialla Geraint Thomas, si era appena spostato dalla testa del gruppo e il keniano d'Inghilterra aveva provato l'allungo, quello buono per spazzare via avversari e incertezze di tattiche di squadra. Dietro a lui Vincenzo Nibali che pedinava il rivale, cercava la scia per provare a sfruttarla da rampa di lancio. Quattro chilometri all'arrivo, una strettoia, le moto, le troppo moto del Tour che sfiorano i corridori, l'arancione dei fumogeni che riempiva l'aria e da quell'aria Nibali che non usciva, finito per terra urtato da una moto, da un tifoso, da chissà chi. Non importa. Comunque per terra. Nonostante la gamba buona, nonostante la dimostrazione di poter stare con i migliori. Nibali invece finisce a 13 secondi da Geraint Thomas, magnifico nel cercare e trovare il varco buono per diventare imprendibile allo sprint in cima all'Alpe. 

 

  

Dirà, dopo l'arrivo: "C'è stato un rallentamento e sono andato giù". Com'era andato già Froome sulle pendici del Mont Ventoux nel Tour del 2016. Vittime del caos di una corsa sempre più vittima della sua grandezza, del numero spropositato di moto per offrire il miglior servizio per gli spettatori a casa a costo di offrire il peggior trattamento ai tifosi, molte volte impossibilitati a muoversi lungo i percorsi. E vittima anche dei suoi stessi tifosi che ormai non capiscono più la differenza tra un ciclista e vip che passeggia per il centro di una città, che se ne fregano di qualsiasi cosa pur di avere un selfie mosso con un corridore che guarda altrove e probabilmente sta maledendo quel cretino che gli sta affianco.

 


Foto LaPresse


  

Nibali risale in bici e cerca di non perdere troppo tempo a lamentarsi, che c'è il meglio del gruppo davanti che cerca la cima dell'Alpe. Nibali si mette di buona lena a vorticare sulle pedivelle mentre Froome e Dumoulin si parlano, decelerano, capiscono che non è giusto andare a tutta, non è giusto infierire su chi sarebbe stato agevolmente con loro, ma non c'è a causa di un'organizzazione (almeno oggi) non all'altezza. Quattro uomini affiancati che provano a comunicare. Quattro uomini affiancati che provano a capirsi, a rallentarsi. Ma sono pur sempre quattro uomini affiancati che cercano di vincere un Tour de France. E così Bardet riparte e gli altri inseguono, si stuzzicano, si attaccano, cercano un successo che là in cima vale tanto, vale il proprio nome marchiato per sempre su di un tornante della salita.

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