La riapparizione di Quintana è un sorriso al Tour de France

Giovanni Battistuzzi

Il colombiano vince sul Col du Portet. Chris Froome fatica (e a fine tappa viene scambiato per un tifoso e bloccato dalla gendarmeria), mentre Thomas stacca Roglic e Dumoulin

Là tra gli altipiani colombiani a volte alcuni bagliori illuminavano la notte. I "draghi di luce" erano il segnale che i mohan stavano tornando. I chyquy, i sacerdoti della civiltà Muiscas, aprivano i templi, radunavano la popolazione, aspettavano la visione, il racconto del volere degli dei. Perché i mohan vivevano in solitudine dispersi dentro grotte o in cima a qualche monte, erano eremiti che cercavano la solitudine e raggiungevano la collettività solo ogni tanto. Ma quando arrivavano era un'evento, qualcosa che doveva essere ricordato. Nairo Quintana non è un mohan, ma viene dalle stesse zone. E' apparso migliaia di anni dopo in Colombia, qualche anno fa nel ciclismo e sembrava una visione: perché uno scalatore così era da tempo che non si vedeva in gruppo. Nairo Quintana non è un mohan, molte volte all'eremitaggio preferisce la tranquillità dell'anonimato del gruppo, rinuncia alla ribalta dell'arrembaggio, si normalizza. Ogni tanto però Nairo Quintana diventa mohan, sceglie la solitudine, fa esplodere i suoi draghi di luce. Lo ha fatto oggi verso il Col du Portet. Lo ha fatto con un allungo pirenaico, uno scatto che mancava da un po', la dimostrazione che nonostante tutto lui c'è ancora, non è sparito, non si è trasformato in un fantasma. Certo ha avuto qualche colpo a vuoto, anche a questo Tour de France, certo se li immaginava diversi pure lui questi anni. Ma tant'è, in fondo in fondo si sente un mohan, mica un chyquy, lui appare quando vuole, quando ha qualcosa da dire. Ha deciso di farlo lassù a oltre duemila metri, sul tetto della Grande Boucle. E ha pure sorriso. Proprio lui che mai un'emozione gli appare in viso, che fatica o non fatica è lo stesso. La stessa faccia, lo stesso sguardo, la stessa bocca chiusa. Questa volta no. Questa volta era una libidine pure per lui vedere scivolare via di dosso un po' di polvere e un po' di brutte sensazioni.

 

 

Mancavano tredici chilometri al traguardo quando il colombiano della Movistar si è alzato sui pedali e ha provato a dare un senso al suo Tour, tradurre sull'asfalto dei Pirenei i buoni propositi che aveva raccontato a televisioni, radio e giornali. Mancavano tredici chilometri quando chi gestiva le sorti del gruppo ha visto sfuggire Quintana, lo ha visto arrampicarsi verso la cima nel tentativo di non rimanere impantanato ancora all'interno dell'anonimato, in quella macchia bianca sporcata di nero davanti il gruppo che in realtà è una pozza di sabbie mobili nella quale le speranze rivoluzionarie si spengono e affogano. La macchia del Team Sky che tutto comanda e tutto muove. Compagine che sembra inattaccabile che sempre si esaurisce dopo l'esaurimento di chi la dovrebbe insidiare. Compagine che sembra inattaccabile anche perché mai chi la vorrebbe abbattere ha provato a mettersi d'accordo per lanciarle un'imboscata.

 

E allora ci prova il percorso a solleticare la fantasia dei corridori: tappa corta e tutta un saliscendi, tre colli in sessanta chilometri, un avvio alternativo, senza partenza lanciata. Ma la griglia di partenza nel ciclismo, presa in prestito un po' dal mondo delle moto e un po' da quello delle gran fondo, non è una di quelle innovazioni che passeranno alla storia. Perché pronti, via e passati quattrocento metri è tutto come è sempre stato: davanti a tutti chi cerca l'avanguardia, davanti al gruppo il Team Sky.

 

 

La squadra della maglia gialla controlla, mentre Tanel Kangert prova la mattata che fa storia e Julian Alaphilippe la ripetizione del volo di ieri. Il Montée de Peyragudes passa così. E così passerebbe pure il Col de Val-Luron-Azet se non fosse per Romain Bardet che spreme Pierre Latour e per la Movistar che piazza Marc Soler in modalità rampa di lancio. Ma non c'è nessun razzo pronto, le maglie bianche sporcate di nero sono troppe, mettono paura per numero e per forza.

 

Anche perché per un Chris Froome che fatica c'è un Geraint Thomas che sembra un bulldozer, che non perde un metro, non batte mai a vuoto e anzi, quando si ritrova solo con Tom Dumoulin e Primoz Roglic, dà pure un colpo al morale e alle gambe dei rivali: cinque secondi che sono un niente, cinque secondi che però sono un brutto indizio per le sorti futuri delle speranze di chi si ostina a sognare il gradino più alto del podio di Parigi. Perché ora sono centodiciannove i secondi che l'olandese deve recuperare dal Gallese e centodiciannove secondi contro il tempo Dumoulin sa che nemmeno per sbaglio potrebbe recuperarli. Venerdì verso Laruns, sulle ultime cime pirenaiche, si dovrà inventare qualcosa. Sempre che sia vero, come è sembrato oggi, che Froome non abbia le gambe per competere con i primi. Sempre che sia vero, com'è accaduto oggi, che Thomas abbia più fondo e più birra di tutti.

 

 


 

A fine tappa l'ultima assurdità della gendarmeria francese. Chris Froome viene fermato da un gendarme mentre scendeva a valle e buttato giù dalla bicicletta.

 

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