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L'Italia del ciclismo al Mondiale. Finché c'è Nibali c'è speranza

Giovanni Battistuzzi

L’eccezione dello Squalo, ossia la capacità di rendere possibile l’improbabile. A Innsbruck per dimenticare l’infortunio al Tour de France. Vincenzo Nibali si racconta

Quando nell’ottobre del 1975 il premio Nobel per la Letteratura Heinrich Böll si recò a Innsbruck scrisse alla moglie Annemarie di aver trovato “una città felice e sorprendente”. Era lì per una serie di conferenze, poche ore di parole e diverse di passeggiate tra vicoli e boschi, il tempo giusto per capire come “ciò che qui accade sottende qualcosa di diverso, di sconvolgente. Quello che mi sembrava ovvio, non lo era, ribaltava i miei giudizi, portava a conclusioni a cui non avrei mai pensato solo qualche istante prima. Mi trovavo sulle rive dell’Inn, la città si rifletteva in quelle acque calme che calme non sono e tutto mi appariva nuovo”. Le stesse acque che i ciclisti vedranno scorrere domenica 30 settembre durante i Mondiali 2018. Le stesse acque che guarderà Vincenzo Nibali sperando possano dare ragione allo scrittore tedesco, che la prova iridata possa sconvolgere ciò che tutti si aspettano, avere un finale diverso. Perché le previsioni della vigilia lo escludono dai primi. Troppe incognite sulla sua condizione fisica, troppo recenti la caduta al Tour de France, l’operazione alla schiena, la marcia veloce e forzata verso Innsbruck. “L’incidente salendo verso l’Alpe d’Huez non è stata cosa da poco. La scelta di operarmi è stata fatta per provare ad arrivare al Mondiale nelle migliori condizioni possibili”, dice al Foglio Sportivo il corridore della Bahrain-Merida e capitano della Nazionale italiana. La gamba ha provato ad affinarla alla Vuelta di Spagna. Tanto gregariato al servizio dei compagni, tanti chilometri in testa per mettere fatica in serbatoio e fughe per riprendere confidenza con il vento in faccia. Quello davanti a tutti, lontano da tutti. Che ha un odore diverso da quello che si respira in testa al gruppo, che non sa solo di fatica, ma può, a volte, odorare di vittoria. La corsa spagnola “non è stata facile. Poi una settimana fa ho gareggiato al Memorial Marco Pantani e le sensazioni sono migliorate. Sto bene ma non sono super. Difficile prevedere come si evolverà il Mondiale, di certo darò il massimo. Poi si vedrà”.

 

Non doveva andare così, ma così è andata. Tant’è. D’altra parte il ciclismo è uno sport strano, l’unica disciplina nella quale il Campionato del mondo non è l’evento dell’anno. Sarà che è uno sport legato in modo ombelicale alla memoria dei luoghi e il Mondiale è invece gara itinerante. Sarà che si è palesato nel 1927, quando le più importanti corse avevano già almeno un ventennio di storia e di storie. Sarà soprattutto, come raccontò Claude Criquielion, che “vestire per un anno la maglia iridata – la conquistò nel 1984 – è una soddisfazione pazzesca, ma io continuo a sognare la Liegi-Bastogne-Liegi”. Sarà, come dice invece Nibali, che “non ho grandi ricordi del Mondiale da bambino. Dei Giri d’Italia che guardavo invece sì. Mi vengono in mente gli scatti di Pantani e Tonkov, le volate di Cipollini. Il Campionato del mondo non aveva lo stesso fascino”. Almeno da spettatore. Da corridore è un’altra storia: “Mi ricordo, invece, di quando ho vinto la prima medaglia di bronzo nelle crono juniores a Zolder nel 2002 e la seconda, ormai da Under 23, a Verona nel 2004. Quell’anno tra i pro vinse Oscar Freire: che corsa e che corridore!”.

 


Vincenzo Nibali durante l'ultimo allenamento pre-Mondiale (foto tratta dalla pagina Facebook di Vincenzo Nibali)


  

Non avrà il mito della Roubaix, del Fiandre, il fascino della Liegi, della Sanremo o del Lombardia, il prestigio delle grandi corse a tappe, ma il Mondiale è comunque “qualcosa che ti porti dentro, un ricordo d’amore”, raccontò Nino Defilippis a Bruno Raschi a inizio anni Settanta. Il Cit fu secondo nel 1961, “fu il mio unico Campionato del mondo”. Finì alle spalle di Rik Van Looy, “il secondo posto più bello della mia vita”. Sono passati invece quasi otto anni dal debutto mondiale di Nibali (era il 3 ottobre 2010). E quella maglia azzurra la ricorda ancora: “Ho esordito in Australia, ma a crono avevo già fatto Salisburgo e Stoccarda e lì in Germania ero stato riserva per la prova in linea. Il percorso di Melbourne non era adatto a me e quindi mi sono messo a lavorare per Pippo Pozzato che arrivò quarto. Che grandi scatti tra me e Giovanni Visconti. Nel 2010 ero già un corridore per corse a tappe: podio al Giro e vittoria alla Vuelta. Nelle gare di un giorno potevo dire la mia, ma dipendeva dal tipo di percorso. Un Mondiale per scalatori è sempre stata cosa rara”.

 

Qualcosa di raro che ogni tanto capita. Come a Sallanches, Francia, Alta Savoia, due passi dalla Svizzera, due dall’Italia. Era il 1980 e allora i dati forniti dalla l’Unione ciclistica internazionale dicevano: 20 giri, 13,4 chilometri a botta, in mezzo i 2,7 chilometri della Côte de Domancy e le sue pendenze che arrivano al 16 per cento, in totale 273,7 chilometri e 5.688 metri il dislivello. Era il palcoscenico che il ciclismo, non solo quello francese, aveva cucito per Bernard Hinault, il più forte corridore di allora, uno tra i migliori di sempre. Un’occasione da non perdere. E il Tasso non la perse: dominò, vinse con oltre un minuto su Gibì Baronchelli, in quello che per molti fu, con quello del Nurburgring del 1966 e quello di Solingen 1954, il Mondiale più duro della storia.

 

 

Qualcosa di raro che ogni tanto ritorna. Accadde nel 1989 a Chambery, poi nel 1992 a Benidorm. Domenica sarà tempo di Innsbruck. In Austria i chilometri saranno 258,5, il dislivello pari a 4.670 metri. Due le ascese: quella verso Hottinger Höll da ripetere sette volte prima dello strappo per raggiungere Gramartboden, una lama di 2.800 metri con una pendenza media dell’11 per cento e massima di oltre il 20. Un Mondiale costruito per dare una chance agli scalatori. Un Mondiale che Nibali ha studiato, programmato, preparato, sognato. Che sembrava perso, ma si è affannato a rincorrere. Abnegazione e voglia di crederci, perché quando c’è la bicicletta in mezzo la risposta alla domanda ma chi te lo fa fare? è sempre la stessa: la bici. “Alla base continua a esserci la consapevolezza di fare qualcosa che amo – spiega Nibali – La passione è rimasta la stessa anno dopo anno e quando metto il numero sulla maglia la voglia di vincere è pari a quando gareggiavo da ragazzino. La passione però non basta, bisogna lavorare, fare sacrifici. Solo così si possono raggiungere dei risultati: la Vuelta è stato tutto questo”.

 

Nibali non cerca scuse, non l’ha mai fatto, sa quello che può dare e quello darà. Tutto, come sempre, molte volte anche di più.

 

D’altra parte lui è uno di quelli che non vanno mai dati per battuti a priori. E’ quello che è partito dalla Sicilia, ha incrociato le strade della Toscana e da lì è ripartito per ribaltare la geografia del ciclismo. E’ quello che quando corre non si può mai dire come andrà a finire, quello delle nibalate: rendere possibile l’improbabile. Perché se una cosa è certa, è che in questi anni lo Squalo ha sempre dimostrato che il ciclismo non è una scienza esatta, che l’immaginazione e il coraggio possono ancora stravolgere e sconvolgere una corsa. Lo ha fatto all’ultima Milano-Sanremo: di forza, scattando sul Poggio, di picchiata, planando in discesa, di resistenza, menando sui pedali per conservare quei metri che gli hanno permesso di arrivare a braccia alzate sotto il traguardo della Classicissima.

 

 

Lo ha fatto al Tour de France del 2014, quello terminato in maglia Gialla a Parigi. Prima su e giù tra le alture dello Yorkshire verso Sheffield, poi sul pavé. Ad Aremberg, alle porte dell’inferno (del nord) iniziò a costruire il suo paradiso.

 

Nibali è quello che quando è dato per spacciato riesce a risorgere, sicula fenice. Come al Giro d’Italia del 2016, quando, a tre giorni dal gran finale a Torino, nessuno credeva fosse possibile rimontare quasi cinque minuti a Steven Kruijswijk, sino ad allora inattaccabile. Ci riuscì. Prima scattando sul Colle dell’Agnello, spremendo a tal punto i rivali da renderli incapaci di evitare gli errori, e poi involandosi verso Risoul, grazie anche al lavoro fantastico di Michele Scarponi (ma, come diceva Gianni Brera, “la grandezza di un campione è anche quella di sapersi scegliere i gregari”).

 

 

Il giorno dopo l’attacco sul Colle della Lombarda. A Sant’Anna di Vinadio si vestì di rosa. O come al Giro di Lombardia del 2015 quando spazzò le foglie morte della Classica di fine anno volando sulla discesa di Civiglio dopo una stagione nella quale aveva ottenuto la maglia di campione nazionale, ma raccolto qualche delusione di troppo al Tour (chiuso comunque con un quarto posto) e una squalifica per traino alla Vuelta.

 

 

Proverà a inventare qualcosa pure a Innsbruck, perché in un Mondiale si è più liberi di immaginare qualcosa di diverso. Con il commissario tecnico Davide Cassani, soprattutto sulla strada. “Rispetto alle altre gare non si possono usare le radioline – dice ancora Nibali – e quindi diventa molto importante essere informati dall’ammiraglia e parlare tra noi in corsa. Dalla macchina la visione è forse più completa: vedi chi si stacca, dove sono i favoriti in gruppo e quale può essere l’evoluzione della gara. Il ct è in pratica un regista, come lo sarà anche Franco Pellizotti in gruppo”.

 

Nibali ha quasi 34 anni, un passato vincente, un presente azzurro, soprattutto un futuro, che sta costruendo per sé e per il ciclismo italiano: “Il progetto della Nibali Junior Team nasce dall’idea di dare la possibilità ai più giovani di fare dello sport, in questo caso il ciclismo, a Messina, città in cui sono nato e che a livello sportivo non offre le stesse possibilità di un giovane che vive in altri parti d’Italia. La Mastromarco Sensi è invece la società dilettantistica toscana che mi ha ‘adottato’ quando ragazzino ho lasciato la Sicilia”. Uno sforzo per contribuire a far continuare quello che è sempre stato: un paese innamorato delle biciclette. “In generale, l’attività giovanile è ben radicata in Italia anche se, negli ultimi anni, il problema della sicurezza sulle strade ha tenuto lontano molti giovani che avrebbero invece voluto pedalare”. L’idea è che un paese come il nostro deve tornare a essere protagonista nel ciclismo più importante, ma che per farlo è necessario l’impegno di tutti: “I costi delle squadre, a livello World Tour ma anche a livello continental, sono lievitati e credo che oltre all’aiuto statale o federale occorrano anche sponsor privati che investano cifre importanti. Servirebbe una sinergia pubblico-privato, ma mi rendo conto che in Italia siamo ancora un po’ indietro”.