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Pantani, 20 anni dopo

L'apoteosi svizzera di Pantani

Giovanni Battistuzzi

Era il 6 giugno 1998 e nella penultima tappa, la cronometro Mendrisio-Lugano, il Pirata si tiene alle spalle Tonkov e conquista matematicamente il Giro d'Italia

Non c'è la maestosità dell'Arena di Verona, né l'eleganza potente e perfetta di Francesco Moser. Non c'è un finale già scritto che è stato riscritto, né l'attesa di una conclusione impensabile, che altro non è che suspance hitchcockiana. Ma quel giorno a Lugano qualcosa di incredibile è accaduto, ha abbracciato il Giro d'Italia di eccezionalità.

 

C'è un pizzico di incredulità nei suoi occhi. Osserva lo schermo posto dopo l'arrivo, il cronometro fermo a 40 minuti e 24 secondi, che ancora la bicicletta, quella strana, da distenderci sopra, andava per conto suo, d'inerzia. Il numero tre, affianco al suo nome, Marco Pantani, ed è cosa impensabile. Terzo. A cronometro. E due lineette dopo quell'altro nome, Pavel Tonkov, quello che doveva essergli davanti, ma davanti non lo era. Certo glielo avevano urlato dall'ammiraglia che il russo era dietro, ma meglio non fidarsi troppo delle parole urlate, che servono a non far deprimere la gente, specie se si è impegnati in una specialità che non si ama. Certo il boato all'arrivo era quello delle occasioni speciali, delle grandi vittorie, però chi se lo aspettava. Terzo. E davanti solo Sergei Gontchar e Massimo Podenzana. Che forte il Pode. E cinque secondi dietro c'è Tonkov, addirittura quinto.

 

 

Pantani guarda la maglia rosa: è sua. Sua per sempre. Perché domani si arriva a Milano e domani arriva il Giro per più non ripartire.

 

"Ho corso una crono come non ho mai fatto. Irripetibile. C' era in palio tanto. La paura mi ha dato coraggio e fornito energie straordinarie. La maglia rosa mi ha dato più motivazioni. Ma in condizioni normali non avrei fatto un risultato del genere. E difficilmente penso di ripeterlo", dice.

 

Pantani stringe quella maglia e guarda il lago, lo stesso della canzone, e forse pure a lui è venuto in mente suo "padre fermo sulla spiaggia / le reti al sole i pescherecci in alto mare / conchiglie e stelle / le bestemmie e il suo dolore", anche se dolore qui non c'è, solo una gran gioia, una gioia immensa.

 

La maglia rosa l'ha spinto a volare contro il tempo, il resto però ce lo ha messo lui. E sono scatti e sono fughe montane e sono resistenze altrui, talmente estenuanti da aver bloccato le gambe al russo. Tonkov, "che è un mezzofondista, di quelli che asfissiano con il ritmo, la media", scriveva Mario Fossati su Repubblica, si è ritrovato finito nel momento della verità, quella a cronometro, che è pratica dove non esiste né bluff né menzogna. Tonkov all'arrivo scuote la testa, sa che nulla ribalterà. Ci sono tre minuti di attesa, quelli che sono uno strazio, che non assomigliano nemmeno un po' ai tre minuti di Moser a Verona nel 1984. Quelli che esaltano Pantani, il suo Giro in salita, sublimato a cronometro per manifesta superiorità ascensionale.

 

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