Immagine tratta da YouTube

Porca corsa. La resistenza bretone del Tro-Bro Leon (e per chi vince un maialino)

Giovanni Battistuzzi

Domenica si corre la trentaseiesima edizione della corsa che vaga tra gli sterrati della Bretagna. Nata per finanziare una scuola è divenuta la Roubaix dell'Ovest

L'orizzonte da quella lingua di coste frastagliate che si staglia nell'Oceano atlantico è una linea infinita che si perde nel blu del mare. Finistère, dal latino, fine della terra, perché altro più non c'è al suo termine, se non mare, Penn-ar-Bed, in bretone, punta del mondo, perché le colline si gettano a cuneo nel mare, trasformandosi in scogliere e lunghe spiagge sommerse a seconda della marea dalle acque. E' la Bretagna più dura e orgogliosa, forse perché ultimo avamposto prima di quel caos calmo che è l'Oceano. E' la Bretagna di druidi, non solo sacerdoti del culto gallico, piuttosto una mescolanza di giudici, maestri e taumaturghi, e combattenti, quella della Côte des Légendes, dove scorrazzava Morvac'h, il cavallo nero che poteva correre sulle acque, nato da una sirena e da un tritone, il cavallo che nessuno poteva domare, se non la Regina del Nord, se non il Re Glandon, il grande condottiero che liberò questa terra.

 

Di Morvac'h il Finistère ne ha le sembianze, i bretoni l'ardore. Kentoc'h mervel eget bezañ saotret, ossia piuttosto la morte che il disonore. Ne sa qualcosa Jean Robic, nato nelle Ardenne francesi ma cresciuto da quando ne aveva ricordo in Bretagna, che dopo una foratura, nella Parigi-Roubaix del 1944, piuttosto di farsi staccare accelerò mentre le sbarre della stazione di Amiens si stavano abbassando, scivolò sulle rotaie bagnate e si fratturò il cranio: da quel giorno fu costretto a usare una casco di cuoio, divenne, per tutti, "testa di vetro". Ne sa qualcosa Luison Bobet, bretone di nascita e formazione, che nel 1955, nonostante le piaghe sulle natiche dovute a una caduta, riuscì a conquistare il suo terzo Tour de France consecutivo sedendosi sulla sella il meno possibile. Ne sa qualcosa Jean-Paul Mellouët, che pur di salvare dal fallimento la scuola Diwan (seme in bretone) di Ploudalmézeau, ultimo avamposto dell'insegnamento scolastico in bretone, si inventò una corsa per trovare i soldi che servivano a mandare avanti la struttura dopo il taglio dei fondi ministeriali. Il Tro Bro Leon nasce così: come resistenza. Si correrà domenica 15 aprile la trentaseiesima edizione e sarà, come ogni anno, uno spettacolo.

 

Era il 10 aprile del 1983, quando dal fango della Parigi-Roubaix emerse Hennie Kuiper. Era caduto due volte quel giorno l'olandese, ma non si era arreso. Da solo aveva recuperato i quattro al comando spinti da un Francesco Moser scatenato, che aveva provato l'assolo già nella Foresta di Aremberg. Sul Carrefour de l'Arbre Kuiper aveva attaccato, nessuno era riuscito a stargli a ruota. Una prova di forza e cattiveria agonistica che nonrovinò nemmeno l'ennesima sfiga: un palmer che esplode, che si piega, che si imbizzarrisce e prova a sbalzarlo di sella. Kuiper resiste, cambia la ruota, raggiunge il velodromo di Roubaix con oltre un minuto in anticipo degli avversari. E' un trionfo, epica in bicicletta: l'uomo che domina la sorte avversa.

 

 

Jean-Paul Mellouët quella Roubaix la vide seduto sul suo divano, alzandosi ogni tanto per mettere qualche ceppo nella stufa. Quel giorno la Bretagna, come le Fiandre francesi, era dominata dal fango. La pioggia non smetteva e un vento freddo scendeva da nord. Fuori dalla sua finestra il sentiero di ciottoli, terra battuta ed erba si perdeva nella bruma. Quando arrivò un suo amico in bicicletta, tutto schizzato di melma in faccia, non notò differenza con l'immagine televisiva di Henne Kuiper. Disse: "Perché no?".

 

Di pavé ce ne è poco lassù nel Finistère, ma di ribinoù ce ne sono quanti se ne vuole. Sono tracciati agricoli, stradine che si perdono tra i campi, scorciatoie che vengono usate dagli abitanti per congiungere paesino a paesino. Mellouët decise che non era una cattiva idea farci correre le biciclette. Nel 1984 il primo Tro-Bro Leon prevedeva un solo settore di sterrato di cinque chilometri: venne accolto come una boutade. Divenne l'essenza della corsa. E' continuata così per un po', poi hanno deciso di aggiungerne uno all'anno. Queste scorciatoie si sono trasformate in allungatoie, sono diventate il simbolo di una corsa rurale, che se ne frega altamente di essere modello, che rappresenta ancora un ciclismo agreste, antico, fuori dal mondo perché alla fine del mondo.

 

Duecento chilometri e spicci, una quarantina senza asfalto. In palio un maialino. Perché all'inizio era corsa paesana che serviva a raccogliere fondi per la scuola. Una corsa paesana talmente folle da diventare eccezione. Il maialino è rimasto come premio, "non abbiamo pietre da consegnare al vincitore, ma in Bretagna ci sono maiali buoni", ha detto jpg, come vuol farsi chiamare, ma tutto in minuscolo, a Le gruppetto. E così continua a essere. Un maialino di premio al primo, ma solo se bretone. Altrimenti una medaglia al vincitore e il maialino al primo bretone all'arrivo, perché "i maiali devono vivere respirando l'aria che hanno sempre respirato", ha replicato alla tv francese.

 

Sino al 1999 il Tro-Bon Leon era corsa riservata ai dilettanti, poi è stata aperta anche ai professionisti. Non è organizzata dall'Aso, il gruppo che organizza Tour, Vuelta e tutte le corse più importanti in Francia, è rimasta indipendente e fiera di esserlo, e tutto è gestito da diciotto volontari che diventano seicento il giorno della gara. Il budget è passato dagli ottomila franchi del 1984 ai 250mila euro di oggi, ma nulla è cambiato: la maggior parte vanno al mantenimento dei ribinoù e a quello della scuola, un po' ai corridori, quasi nessuno nelle tasche degli organizzatori. Anzi dopo ogni edizione ci sono qualche migliaia di euro di buco che vengono riempite con qualche lotteria o riffa improvvisata dopo la corsa.

 

 

L'anno scorso dopo la vittoria della trentacinquesima edizione Damien Gaudin disse: "Sono felicissimo, vincere qui è straordinario, questa è una corsa fantastica che non ha nulla da invidiare a altre corse più famose".

 

Frédéric Guesdon, vincitore (un po' a sorpresa) della Parigi-Roubaix del 1997, scoprì questa corsa nel 2001. Guesdon era bretone di Saint-Méen-le-Grand, lassù trovò il suo terreno d'elezione, la sua passione. Sino ad allora, per lui aprile era fatto del pavé delle Fiandre e poi quello della Roubaix, infine un passaggio a est tra le Ardenne olandesi dell'Amstel Gold Race. Dopo quel suo debutto, concluso con un ottavo posto, divenne un appuntamento (quasi) fisso. La Tro-Bon Leon la conquistò nel 2008 e fu "uno dei più bei giorni della mia carriera". Nel 2012, a 41 anni decise di concedersi l'addio al ciclismo sulle pietre della Roubaix, la corsa che lo aveva fatto entrare nella storia del ciclismo. Si ritirò. Pochi mesi prima, dopo aver recuperato dalla frattura delle cresta iliaca, aveva annunciato che se non fosse riuscito a rimettersi in forma per la Regina "il mio addio sarebbe andato in scena alla Tro-Bro Leon", il suo secondo grande amore.

 

Quest'anno, il campione del mondo di ciclocross Wout Van Aert aveva messo la Tro-Bon Leon tra i suoi obbiettivi: "Ne ho sentito parlare come una corsa magnifica, sono curioso, vorrei un giorno vincerla". Domenica non ci sarà, dopo il ricordo silenzioso alla Freccia del Brabante di Michael Goolaerts, morto domenica alla Roubaix, la Vérandas Willems-Crelan, ha chiesto di non partecipare: troppo è il dolore per un compagno perduto. Jean-Paul Mellouët ha capito, ha dato appuntamento a tutti loro per l'anno prossimo. Certo ciclismo sa ancora comprendere che prima di interessi economici e sponsor c'è ancora un cuore che pedala.

Di più su questi argomenti: