La ressa dei pellegrini a Kerman il 3 gennaio, subito dopo l'attentato (foto LaPresse)

l'attentato

L'Iran si fa sbugiardare dal Califfato, che rivendica l'attacco di Kerman

Luca Gambardella

Il comunicato dell'Isis mette in guardia i palestinesi: state permettendo a Teheran di rubarvi la scena. Gli americani rispondono agli attacchi alle loro basi e uccidono un generale a Baghdad. Ma ora la loro permanenza in Iraq è a rischio

Lo Stato islamico ha rivendicato il doppio attacco del 3 gennaio a Kerman, in Iran, nel giorno della commemorazione del quarto anniversario della morte del generale Qassem Suleimani. Il canale ufficiale del gruppo, al Furqan, ha diffuso un messaggio del portavoce Abu Huthaifa al Ansari in cui rivela anche i nomi e le foto degli attentatori suicidi – Omar al Mouwahid e Seif Allah al Moujahid – che si sono fatti esplodere a poche centinaia di metri dalla tomba di Suleimani. Il bilancio è stato di 84 morti e circa duecento feriti, uno degli attentati più efferati nella storia recente dell’Iran. Il comunicato dello Stato islamico è molto duro e in buona parte si concentra sulla guerra a Gaza. Quella palestinese è derubricata dal Califfato a “una piaga fra le tante”: “Non basta combattere contro gli ebrei per restare sul giusto cammino, occorre farlo anche contro i regimi arabi”. Lo Stato islamico critica i palestinesi che si sono messi alle dipendenze del regime di Teheran, “permettendogli di prendersi la scena”. La nostra “non è una guerra per il territorio o di frontiera – continua al Ansari – è una guerra di religione”. Il messaggio somiglia a un tentativo del Califfato di prendere le distanze dalle modalità con cui gli alleati di Teheran combattono a Gaza, diventata un palcoscenico per l’Iran sciita – considerato   un regime di takfir, cioè di scomunicati, agli occhi dello Stato islamico – piuttosto che una guerra di liberazione. 

 

L’attacco di mercoledì  ha sorpreso il regime di Teheran al punto da rendere la sua comunicazione contraddittoria e poco coordinata. Da una parte, il governatore di Kerman, diversi leader politici e il comandante delle forze al Quds, Ebrahim Qaani, hanno incolpato Israele. Dall’altra, l’ayatollah Ali Khamenei e il presidente Ebrahim Raisi sono stati più cauti e, seppur annunciando vendetta contro i responsabili, non hanno mai nominato lo stato ebraico. I sospetti però si erano rivolti da subito verso lo Stato islamico, in particolare si sono spostati sulla sua provincia afghana, quella del Khorasan. Lì, lo Stato islamico si sente minacciato dall’Iran, perché sostiene i suoi rivali  talebani. Non a caso, dopo l’attacco del 3 gennaio, le autorità iraniane hanno aumentato i controlli alla frontiera con Afghanistan e Pakistan nel tentativo di catturare gli attentatori. Il comunicato del Califfato impedisce ora all’Iran di giocare la carta dell’“attacco sionista sponsorizzato dagli americani”, ma dall’altra gli permette di spenderne un’altra predicata da sempre e che suona così: lo Stato islamico e gli Stati Uniti sono due facce della stessa medaglia, perché il primo è emerso nel momento della sconfitta di Saddam Hussein da parte degli americani. 

 

La questione della guerra allo Stato islamico si intreccia a quanto avvenuto oggi a Baghdad, dove un missile americano, identico a quello che quattro anni fa ha ucciso Suleimani, ha colpito il quartier generale del gruppo armato filoiraniano Harakat al Nujaba, uccidendone il comandante, Abu Taqwa al Saidi. La sua milizia è fra quelle che da mesi attaccano le basi americane in Iraq e Siria. 


Da metà ottobre, il Pentagono ha contato oltre un centinaio di attacchi contro le sue basi in cui circa 2.500 americani combattono ciò che resta dello Stato islamico. Sono aggressioni ormai quotidiane che hanno l’obiettivo di costringere gli americani ad abbandonare la regione. Dopo avere sconfitto il Califfato, molte milizie sciite in Iraq hanno deciso di continuare a combattere contro gli Stati Uniti, considerati una forza di invasione. Fu Suleimani a mettere questa galassia di gruppi armati al servizio dell’Iran. Fra queste c’è anche quella che era comandata da Abu Taqwa. Il generale ucciso oggi era il responsabile logistico di al Nujaba, armata, addestrata e finanziata da Teheran. Il suo vero leader però è Akram al Kaabi, che vanta amicizie importanti. In prima linea in Siria, si faceva fotografare sorridente al fianco di Suleimani e aveva legami stretti anche con Abu Mahdi al Muhandis, il comandante di Kata’ib Hezbollah, un’altra milizia filoiraniana, ucciso insieme a Suleimani nell’attacco americano di Baghdad, quattro anni fa. 

 

L’uccisione di Abu Taqwa segna un aumento dell’intensità della reazione americana agli attacchi di questi mesi. Il prezzo da pagare potrebbe però essere elevato. Oggi, il primo ministro iracheno, Mohammed Shia’ al Sudani, ha accusato le forze della coalizione internazionale dell’attacco a Baghdad. Al Sudani è un leader debole, di fatto è ostaggio dell’Iran che da tempo gli chiede di ritirare l’autorizzazione che consente agli americani di restare in Iraq. A dicembre, il premier aveva detto di avere avviato l’iter per fare ritirare le forze della coalizione e l’attacco di oggi potrebbe velocizzare l’uscita di scena degli Stati Uniti dall’Iraq, dopo oltre 20 anni. Significherebbe lasciare una voragine in un paese fragile, conteso fra Iran e Stato islamico. Dopo il ritiro dall’Afghanistan, quello dall’Iraq darebbe un segnale ulteriore del disimpegno americano.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.