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L'attentato alla tomba di Suleimani fra le accuse a Israele e la pista dell'Isis

Luca Gambardella

Centinaia di vittime nel giorno della commemorazione del generale morto quattro anni fa. Crepe nel regime

Le celebrazioni del quarto anniversario dell’uccisione del generale Qassem Suleimani dovevano essere l’occasione per esaltare l’Asse della resistenza. Invece, due esplosioni a poche centinaia di metri dalla tomba in cui fu sepolto il comandante delle forze al Quds hanno ucciso oltre un centinaio di pellegrini, ferendone altri duecento circa. La folla si recava in visita al luogo in cui è tumulato Hajji Qassem, “il martire”, a Kerman, la città dove è nato. E’ stata la peggiore strage degli ultimi anni in Iran, una strage che dimostra la vulnerabilità del regime. 

Non sono arrivate rivendicazioni del gesto. Il presidente Ebrahim Raisi e l’ayatollah Ali Khamenei hanno denunciato l’attacco promettendo una “giusta punizione” contro i responsabili. Altri esponenti del regime hanno invece tentato di strumentalizzare l’accaduto accusando Israele. Il capo delle forze al Quds, Esmail Qaani, ha detto che “verrà il giorno in cui gli americani pagheranno il loro sostegno a Israele”. Secondo Haddad Adel, considerato molto vicino a Khamenei, ci sarebbe un filo rosso che legherebbe l’attentato di oggi a Kerman, l’attacco di due giorni fa a Beirut che ha ucciso il numero due di Hamas, Saleh al Arouri, e l’attacco del 25 dicembre a Damasco in cui è stato ucciso il braccio destro di Suleimani, Seyed Reza Mousavi. La successione degli eventi è significativa dell’alto costo che l’Iran sta pagando per la guerra a Gaza, ma è difficile tirare in ballo Israele nell’attentato di Kerman. Il Mossad ha condotto decine di operazioni in Iran, ma si è sempre trattato di azioni chirurgiche contro ufficiali considerati responsabili di attività che minacciavano direttamente lo stato ebraico, come quelli che supervisionavano il programma nucleare.  Il principale indiziato – come confermato da fonti dell’intelligence americana citate da Bloomberg – è invece lo Stato islamico che è attivo fra Iran e Afghanistan. Fra il 2022 e il 2023, la moschea di Shiraz, sempre nell’Iran centrale, è stata colpita da due attacchi dello Stati islamico che hanno ucciso decine di fedeli sciiti. Suleimani era il simbolo della vittoria sul Califfato, il “campione nazionale” che aveva schiacciato lo Stato islamico. Colpire la sua tomba nel giorno dell’anniversario della sua morte potrebbe avere un valore simbolico evidente. A questa ipotesi si aggiunge quella dell’attacco ordito direttamente dal regime, avvalorata dall’assenza sospetta di leader dei pasdaran e dei famigliari di Suleimani sul luogo dell’attacco. Ma al di là delle congetture, se ci saranno ripercussioni su scala regionale lo si capirà dalle prossime ore, quando il regime deciderà se fare dell’attacco di oggi uno strumento della sua retorica antisemita e anti americana o se invece deciderà di mantenersi su posizioni più caute. 

Di certo, l’attentato ha messo in difficoltà Teheran, come se Suleimani fosse stato ucciso una seconda volta. L’Iran preparava una commemorazione sontuosa. L’evento era stato chiamato “La notte della memoria”, un insieme di iniziative organizzate da un comitato ad hoc in 40 città diverse. Gigantografie del generale sorridente o intento ad abbracciare amorevolmente sua madre mentre le bacia la mano sono state esposte nella capitale. Khamenei ha incontrato le donne della famiglia di Suleimani e ha detto di avere rivolto loro “parole suggerite direttamente da Dio”. Al regime iraniano piace ricordarlo come il “martire” che sconfisse lo Stato islamico, dimenticando invece i massacri da lui ordinati in Iraq, le campagne contro gli antiassadisti in Siria, le amicizie con al Qaida. Con pazienza, per anni, Suleimani ha messo in piedi una rete di milizie addestrate e armate dai Guardiani della rivoluzione. Oggi, queste milizie sono la principale minaccia per i 2.500 militari americani dislocati in Siria e Iraq e impegnati a combattere contro lo Stato islamico. Dal 17 ottobre a oggi, il Pentagono ha contato 118 attacchi lanciati da gruppi filoiraniani contro le sue basi in Siria e Iraq, cinque solo nei primi due giorni del 2024. 

La stessa pazienza con cui Suleimani ha intrecciato la sua rete di alleanze oggi è celebrata in Iran. “La pazienza strategica non significa passività”, titolava il Teheran Times per ricordare i successi del generale, ma anche per fare capire quale sia la posizione del regime all’indomani dell’uccisione del numero due di Hamas a Beirut e, per ora, dopo l’attentato a Kerman. La guerra aperta non è un’opzione al momento perché quella a bassa intensità e su larga scala si sta dimostrando più efficace, costringendo americani e israeliani a gettarsi in un conflitto esteso, che va da Gaza al Golfo di Aden, e dal forte impatto economico. Finora quella pazienza strategica ha portato a consolidare l’Asse della resistenza. Oggi la stampa saudita riportava la notizia della creazione di un nuovo comando centrale a guida iraniana che riunisce quotidianamente nel sud del Libano Hezbollah e i rappresentanti delle milizie filoiraniane di Iraq e Siria per coordinare gli attacchi contro gli americani. Ora però l’attentato di  Kerman potrebbe intaccare l’immagine del regime mettendo alla prova la pazienza che predicava Suleimani. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.