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l'analisi

L'illusione di un equilibrio in medio oriente creato dalla Cina e dai suoi alleati

Vittorio Emanuele Parsi

Dopo il riavvicinamento tra Riad e Teheran, si è pensato che Pechino potesse svolgere il ruolo di pacificatore. Ma Xi resta il principale sfidante della leadership americana, allineata con la Russia sulla guerra in Ucraina e interessata a mettere in difficoltà Washington ovunque sia possibile. Anche in questa regione

Solo poche settimane fa i giornali erano pieni di lodi al nuovo grande mediatore comparso sulla scena politica internazionale: la Cina. Era sotto l’egida di Pechino, leggevamo, che Riad e Teheran si erano decise a uno storico riavvicinamento, foriero di un nuovo medio oriente, libero dall’egemonia americana e finalmente entrato nell’era del multipolarismo (che per i suoi cantori rappresenta evidentemente una specie di “èra dell’acquario”). Del resto nella regione era ormai presente anche la Russia, che, è vero, sosteneva il regime criminale di Assad in Siria (ma chi non ha qualche peccatuccio, suvvia) ma proprio su questo sostegno aveva creato quella triangolazione con Ankara e Teheran che avrebbe contribuito a tenere sotto controllo i bollenti spiriti iraniani, sempre lì a minacciare Gerusalemme.

Con quel successo alle spalle, perché allora non dare credito al “piano di pace cinese per l’Ucraina”, che, per inciso, neppure la autorità di Pechino chiamano così, perché in realtà assembla considerazioni general-generiche, petizioni di principio che si contraddicono tra loro, sparate anti occidentali e carezze nei confronti di Mosca. La Cina come grande mediatore è durato lo spazio di un mattino. Questa è una guerra il cui innesco è tutto nelle dinamiche locali. La negligenza del governo peggiore della storia di Israele che ha distratto forze di sicurezza dal confine di Gaza per proteggere le colonie in Cisgiordania, sostenute dagli estremisti presenti al suo interno. 

La capacità organizzativa e il cinismo politico di Hamas, che della radicalizzazione del clima politico ha bisogno come l’aria per continuare a mantenere il monopolio violento nella leadership a Gaza e tiene in ostaggio una popolazione palestinese ormai priva di ogni speranza. E le leadership della regione che hanno completamente dimenticato la questione palestinese, lasciandone il monopolio della “rappresentanza” agli estremisti di Hamas, del Jihad islamico e di Teheran.

Ma è una guerra che può deflagrare in un conflitto regionale tra chi è ostile al riavvicinamento sotto l’egida americana tra le monarchie del Golfo e Israele e chi lo reputa invece un fattore di stabilizzazione. La Cina si direbbe non avere interessi diretti in tale questione. Ma in realtà non è vero. Una pacificazione del medio oriente sulla scia degli Accordi di Abramo rinforzerebbe la leadership americana nella regione, ovvero un tassello della più complessiva posizione americana nel mondo. Com’è noto, neppure l’Iran – al cui gas la Cina guarda con interesse – è favorevole a una simile prospettiva. Cina e Iran, oltretutto, sono tra i principali sostenitori della Russia di Putin e della sua guerra in Ucraina: la prima acquistando gas e petrolio russo, il secondo rifornendo di droni le forze armate di Mosca, gli stessi che abbiamo visto all’opera con micidiale efficacia in queste ore in Israele. Inutile dire che anche Mosca avrebbe tutto da perdere da un consolidamento dell’influenza di Washington nella regione che passasse attraverso il successo dell’allargamento degli Accordi di Abramo all’Arabia Saudita. Mentre l’apertura di una crisi nella regione costituisce per lei un utile diversivo per l’occidente rispetto alla sua aggressione all’Ucraina.

 

Per bocca di Hamas stessa, Teheran ha fornito assistenza all’incursione devastante dei suoi militanti in Israele. Molto più difficile ipotizzare che Mosca ne sia anche solo stata a conoscenza ed è da escludere che lo fosse Pechino. Ma resta la questione centrale che rende impossibile qualunque ipotesi di mediazione cinese in qualsivoglia conflitto. A livello globale la Cina è il principale sfidante della leadership americana, allineata con Mosca sulla guerra in Ucraina e oggettivamente interessata a mettere in difficoltà Washington ovunque sia possibile. Non solo. Pechino oltre a minacciare in maniera crescente Taiwan e la sua democrazia, rivendica anche l’uso esclusivo dell’intero Mar cinese, fino alla “prima catena di isole” (ovvero il Giappone, le Filippine, la Malesia) in spregio al diritto internazionale e ai legittimi diritti degli altri stati rivieraschi. Tali rivendicazioni sono sempre più sostenute da posture aggressive che minacciano la libertà di navigazione in quelle acque.

 

Nel suo discorso dal Portogallo, il presidente Sergio Mattarella ammoniva sul rischio che, ancora una volta, l’Europa commettesse lo stesso fatale errore compiuto tra il 1938 e il 1939, non riuscendo a collegare le singole minacce e le singole violazioni perpetrate allora dalla Germania di Hitler, oggi dalla Russia di Putin. Allargando la prospettiva temporale e spaziale agli anni Trenta e al mondo, dovremmo ricordare che le più pericolose mosse di Hitler in Germania furono anticipate dal Giappone in Manciuria e dall’Italia fascista in Etiopia. Fu l’insieme di quel segnali non colti a pavimentare la via verso una nuova guerra mondiale. Il simbolo di quella incapacità di voler vedere e capire che cosa stesse davvero succedendo si sublimò nella Conferenza di Monaco e nel ruolo assegnato a Mussolini come “mediatore” tra la Germania nazista e le democrazie anglo-francesi, il cui esito fu l’abbandono della Cecoslovacchia che costituì il prologo dello scoppio della guerra. Guai se le democrazie del mondo – dall’Europa agli Stati Uniti, dal Giappone all’Australia – commettessero oggi lo stesso, medesimo errore con la Cina di Xi: in medio oriente, in Ucraina, in Afghanistan o ovunque nel mondo. 
 

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