Ashkelon, Israele. Evacuazioni dopo l'attacco terroristico di Hamas (LaPresse) 

senza esitazioni

Difendere Israele significa anche oggi difendere noi stessi

Claudio Cerasa

Non bisogna essere timidi quando si parla di Israele. Non bisogna stancarsi di ricordare che il terrorismo che colpisce lo stato ebraico è anche un attacco allo stile di vita che riteniamo libero e democratico  

Non bisogna essere timidi quando si parla di Israele. E non bisogna esserlo soprattutto in queste ore durante le quali i nemici di Israele stanno assaporando nuovamente l’idea di provare a fare quello che promettono di fare da anni i terroristi che assediano l’unica democrazia del medio oriente. In cinque parole: spazzarla via dalla carta geografica. Non bisogna essere timidi quando si parla di Israele. E bisogna abituarsi a non perdere l’abitudine di dire le cose come stanno. Chi ama Israele ama la libertà. Chi ama Israele ama la democrazia. Chi ama Israele è portato a combattere i totalitarismi di ogni genere. Chi combatte i totalitarismi combatte i nemici di Israele. E lo fa sempre. Lo fa quando un gruppo terroristico islamista (terroristico, non radicale) lancia missili su Israele. Lo fa quando gruppi terroristici si fanno saltare in aria nelle strade delle città di Israele. Ma la fa anche quando gli ebrei sono costretti a scappare dalle loro case in Europa. E lo fa anche quando l’occidente sonnambulo, a colpi di boicottaggi europei, a colpi di mozioni dell’Onu, socchiude gli occhi di fronte a tutte le iniziative che puntano a legittimare le azioni contro Israele dei nazisti islamisti. 

Non bisogna essere timidi quando si parla di Israele. Non bisogna avere paura di dire le cose come stanno. Non bisogna avere paura di ripetere che difendere la libertà di Israele significa difendere la libertà dell’occidente. Non bisogna aver paura di ricordare che non è un caso che gli ebrei vengano presi di mira anche per essere intrinsecamente simbolo di democrazia e di libertà. Non bisogna stancarsi di ricordare che il terrorismo che avvicina il suo coltello a un ebreo colpevole di essere ebreo è lo stesso terrorismo che avvicina le sue cinture esplosive a un occidentale colpevole di essere occidentale. Non bisogna stancarsi di ricordare che il terrorismo che colpisce Israele non è soltanto un attacco a Israele ma è un attacco allo stile di vita che riteniamo libero e democratico. E non bisogna avere il timore di spiegare che attorno a Israele vi è ormai da anni uno scontro di civiltà persino più crudele di quello che stiamo osservando in queste ore nelle strade di Tel Aviv. Uno scontro di civiltà che mette da una parte un pezzo di mondo che considera Israele un grandioso modello di civiltà da tutelare e che mette dall’altra parte un pezzo di mondo che considera Israele un odioso modello di civiltà da annientare. In Israele, dettaglio che spesso sfugge a chi cerca ogni giorno un pretesto buono per delegittimare la sua storia, la sua essenza e la sua stessa esistenza, vivono in pace un milione e 900 mila arabi, circa il venti per cento della popolazione, e come capita spesso nelle democrazie liberali le minoranze non vengono represse ma vengono protette, e nonostante la comunità internazionale tenti in tutti i modi di trasformare in un atto illegale ogni azione difensiva di Israele, la verità è che per i nemici di Israele la presenza dello stato ebraico è insostenibile anche per questa ragione: rappresenta semplicemente un modello di resistenza per tutti quei paesi che cercano di difendere i propri confini dai nuovi e vecchi nemici della democrazia liberale.

 

Sabato mattina, poche ore dopo l’attacco terroristico contro Israele, il Foglio ha lanciato un appello così intitolato: “Israele siamo noi”. Lo ha fatto per una ragione semplice. Perché quando una democrazia, come quella di Israele, viene colpita da terroristi che sognano di eliminarla, di cancellarla dalle carte geografiche, di spazzarla via dalla storia, quando una democrazia libera diventa oggetto di un attacco come quello che sta subendo in queste ore, con missili lanciati a sorpresa dalla Striscia di Gaza, miliziani armati entrati in territorio israeliano, quella democrazia va difesa senza balbettare, senza indugi. E senza avere esitazioni nel riconoscere che da una parte c’è uno stato che difende il suo diritto di esistere (Israele) e dall’altra ci sono i terroristi islamisti (Hamas e tutto quello che Hamas si porta dietro) che difendono il loro diritto a combattere con tutta la forza possibile contro la stessa esistenza di Israele. E’ questa la guerra asimmetrica che si combatte ogni giorno attorno ai confini assediati di Israele. E la guerra per difendere Israele mai come oggi somiglia così maledettamente a quella che si sta combattendo per difendere l’Ucraina. Pensateci. Li vogliono cancellare entrambi dalla carta geografica. Li vogliono minacciare entrambi con le armi nucleari. Li vogliono costringere ad abbandonare le proprie terre. Li vogliono annientare entrambi con metodi terroristici. E alla fine dei conti, per ragioni diverse, con sfumature diverse, con storie diverse, entrambi i paesi oggi rappresentano due avamposti formidabili, per l’occidente, nella lotta quotidiana contro i nemici delle democrazie liberali. E in entrambi i casi, in Israele come in Ucraina, ci si difende come si può contro coloro che, ai propri confini, non accettano nel modo più assoluto la presenza, in quei territori, di una democrazia occidentale desiderosa di proteggere fino alla morte i propri valori.

 

Vivere a contatto con fondamentalismi islamici che sognano di colpire al cuore la libertà di una democrazia è un problema che non riguarda solo Israele (o l’Ucraina). E’ un problema che riguarda tutti noi, la nostra cultura, la nostra esistenza, il confine di ciò che consideriamo democratico e di ciò che consideriamo totalitario. Per questo difendere Israele, anche oggi, significa fare una cosa semplice. Significa difendere, ancora una volta, noi stessi. Significa, ancora una volta, difendere le nostre libertà da tutti coloro che ogni giorno cercano un modo per assediarle e persino per cancellarle. Israele siamo noi. Continuate a scriverci qui: [email protected].

 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.