Le richieste a Kyiv per testare una democrazia che si vede a occhio nudo

Paola Peduzzi

Che succede se Zelensky finisce i soldati? Le domande dell'Ucraina sono molto diverse dalle nostre, anche per quel che riguarda Trump

Kyiv, dalla nostra inviata. La possibilità che Donald Trump vinca le elezioni americane del 2024 è terrificante ma non remota e l’Ucraina si prepara anche a questo. C’è uno scollamento sempre più grande tra le preoccupazioni della comunità internazionale e quelle degli ucraini che ha a che fare con i calcoli politici ed economici da una parte e la quotidianità della guerra dall’altra: noi parliamo di sistemi missilistici, munizioni, costi, budget; gli ucraini parlano di persone, di manpower, “possiamo sostituire un carro armato, non possiamo comprare soldati”. Un’attivista a cena, alla ventesima richiesta di commentare il sostegno occidentale affaticato, ha alzato gli occhi dal piatto e ha chiesto: “Cosa succede all’occidente se l’Ucraina finisce i soldati? E’ un’ipotesi che non possiamo escludere, che cosa succede, ditemelo voi”. Il cinismo degli scettici si è nascosto sotto al tavolo.

 

Eppure l’Ucraina si prepara. Fa le riforme richieste dall’Unione europea e aspetta il giudizio della Commissione; studia la lista di “suggerimenti” arrivata dagli Stati Uniti, ha attivato sistemi di controllo di soldi e armi in modo che gli occidentali possano sapere in tempo reale dove finiscono le loro forniture; non parla più di mobilitazione ma di reclutamento: “Chi voleva andare al fronte volontariamente ci è già andato – dice un parlamentare del partito del presidente, Volodymyr Zelensky – Ora bisogna preparare le persone, spiegare. Viene anche data la possibilità di scegliere il battaglione e il posto in cui andare a combattere: c’è chi sceglie la cittadina  da cui proviene, perché la conosce e perché vuole liberarla con le sue mani”. Anche un esponente del partito d’opposizione Solidarietà europea dice: “La motivazione di chi parte oggi per il fronte è molto diversa da quella dell’inizio, è normale che sia così ma ovviamente bisogna lavorare su questa motivazione. All’estero si parla soltanto delle armi fornite ed è come se si pensasse che gli ucraini possano abituarsi alla guerra. Non ci abituiamo: le perdite sono serie, i soldati sono stanchi, dobbiamo impostare turni efficaci, per non parlare dei veterani, delle protesi, degli amputati, dei traumi del rientro dal fronte. E arriva l’inverno ora, se i russi non ci uccidono direttamente vogliono comunque farci morire congelati” – guarda fuori dalla finestra, “che fortuna questo settembre così caldo”. 

 

Eppure l’Ucraina si prepara a soddisfare le richieste internazionali per ottenere il sostegno militare e finanziario e per compiere il suo percorso europeo ed euroatlantico. Anche qui c’è uno scollamento enorme tra la preparazione vista da Kyiv e come la interpretiamo noi. Riforme significa altro capitale umano da impiegare per studiare documenti, procedure, modelli, leggi; riforme significa dover costantemente sottoporsi a test di democrazia, dover dimostrare che si è all’altezza dell’aiuto ricevuto. E’ bizzarro che a chiedere tali dimostrazioni siano movimenti politici – i trumpiani, per esempio – che con la democrazia hanno invero poca dimestichezza, tanto più che in Ucraina “letteralmente andiamo a morire al fronte per difendere la democrazia”, dice il parlamentare dell’opposizione – e fornisce anche la rappresentazione più esplicita della vivacità democratica ucraina. 

 

Critica il presidente e il suo partito, dice che i lavori del Parlamento sono stati sviliti, ma nessuno ha dei dubbi sul fatto che “l’unità è la nostra forza, vogliamo vincere e lo faremo insieme”. Non c’è contraddizione: è la democrazia.  Trump e i trumpiani emergono di continuo nelle conversazioni ucraine: le elezioni americane del 2024 sono trattate quasi come una deadline, militare e politica. Negli Stati Uniti la questione ucraina è sulla bocca di tutti ma molti non sanno dire perché: finora gli aiuti sono stati votati da democratici e repubblicani, ora si discute del pacchetto da 24 miliardi di dollari e l’emendamento che prevede che “nessun fondo federale può essere destinato alla sicurezza Ucraina” presentato dai trumpiani quest’estate ha preso 70 voti – non pochi, ma nemmeno abbastanza da giustificare tanta agitazione. Certo, Mosca sta già celebrando la fine del sostegno americano all’Ucraina. Sul sito Puck, Julia Ioffe racconta di aver telefonato ad Andranik Migranyan, volto noto della tv russa, che le ha detto rapido: “Pochi giorni e l’Ucraina andrà all’inferno, che è l’esito giusto” di questa guerra. Ma se si ascoltano gli esperti americani e ucraini, il fervore cala di molto: anche se i fondi dovessero iniziare a essere stanziati a un ritmo più lento, l’orizzonte temporale della pianificazione militare, dei contratti delle armi e delle fornitura di aiuti va oltre la scadenza elettorale americana. E molto del sostegno all’Ucraina non passa per il Congresso, è intelligence e sostegno strategico che è parte del budget della Difesa e non deve essere negoziato dai leader politici.

 

Questo naturalmente non disinnesca il problema Trump. Un funzionario ucraino dice che alcuni deputati e senatori repubblicani hanno chiesto a Kyiv un aiuto presso gli elettori: chiedono di mandare soldati e testimoni dell’aggressione russa a incontrare i cittadini americani. Questa forse è la richiesta più assurda tra le tante fatte all’Ucraina, l’ennesima dimostrazione dell’incapacità del Partito repubblicano di governare le sue derive trumpiane, con delega diretta per risolvere il problema agli ucraini, che devono quindi allo stesso tempo riformarsi, combattere e convincere gli elettori occidentali che il sostegno è la cosa giusta. Ma come spesso accade anche in altri ambiti, gli ucraini sono meno preoccupati rispetto agli europei e all’establishment americano riguardo all’eventuale ritorno di Trump, dicono – come ha fatto lo stesso Zelensky – che non ce lo vedono l’ex presidente abbandonare Kyiv, soprattutto se al suo arrivo sarà chiaro che Vladimir Putin è un perdente – Trump detesta i perdenti. Anche questo è uno scollamento tra noi e l’Ucraina, che è disposta ad assecondare le richieste, ed è sempre pronta. 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi