Due agenti cinesi marciano attraverso la porta di Tiananmen (Foto di Lintao Zhang/Getty Images) 

Le occasioni che l'Italia rischia di sprecare di fronte al flop cinese

Claudio Cerasa

Il favoloso assedio alla Cina. La crescita peggiora, l’occupazione è un disastro, la valuta crolla, i privati vengono puniti e per le democrazie ci sono ora spazi di manovra infiniti per attirare investimenti e capitalisti. La sveglia economica che serve all’Italia

La giornata di ieri ha offerto agli osservatori due dati economici su cui riflettere. Il primo dato sarà oggi sulle prime pagine di molti giornali, il secondo sarà forse sulle prime pagine di qualche giornale internazionale. Il primo dato, poco confortante ma non ancora del tutto preoccupante, è quello che riguarda l’andamento dell’Eurozona. Ieri la Commissione europea ha aggiornato le stime di primavera limando al ribasso le prospettive di crescita. A maggio, si prevedeva una crescita dell’1,1 per cento nel 2023 e dell’1,6 nel 2024. Oggi la stima è +0,8 nel 2023, +1,3 nel 2024 (stima italiana: +0,9 per cento per il 2023, contro una precedente previsione da +1,2, e +0,8 per cento per il 2024, contro la precedente previsione del +1,1). La seconda notizia, meno immediata ma più rilevante, è quella che arriva dalla Cina e non riguarda il lento e saggio allontanamento dell’Italia dal memorandum della Via della seta firmato con la Cina tra il 2018 e il 2019. Ieri il governo cinese ha ufficialmente previsto una crescita di “circa il 5 per cento” quest’anno, dopo una crescita del 5,5 per cento nel primo semestre e del 3 per cento lo scorso anno. E contestualmente, sei istituzioni finanziarie internazionali (da Barclays a JPMorgan Chase fino a Ubs) hanno abbassato le loro previsioni di crescita annuale per l’economia cinese nel 2023 a causa del calo della domanda di esportazioni e di una persistente crisi immobiliare. In calo rispetto alla stima di inizio anno (che era del +5,8) e in calo rispetto al trend a cui la Cina ci aveva abituato prima del Covid (6 per cento circa prima della pandemia, più 10 per cento annuo tra il 2003 e il 2010). Il dato economico cinese è interessante perché arriva al culmine di un’estate drammatica vissuta da Xi Jinping.

    

Il Wall Street Journal, in un commento di qualche giorno fa, ha scritto che “il modello economico che ha portato la Cina dalla povertà allo status di grande potenza sembra rotto e ovunque ci sono segnali di sofferenza”. E i numeri in effetti iniziano a essere impressionanti. Ad agosto, sono state vendute azioni di società cinesi per un totale di 10,7 miliardi. La valuta cinese è scesa al punto più basso rispetto al dollaro dal 2007 ed è crollata a un livello inferiore rispetto a quello registrato durante i blocchi pandemici un anno fa perdendo quasi il 6 per cento rispetto al dollaro. Il surplus commerciale di agosto è stato di 68,36 miliardi di dollari, in calo del 13,2 per cento su base annua. L’indebitamento complessivo del paese è passato dal 160 per cento del pil nel 2008 al 360 per cento nel 2022. Le obbligazioni immobiliari cinesi denominate in dollari avevano fino a un paio di anni fa un valore di oltre 150 miliardi di dollari e oggi il loro valore è crollato a 33,8 miliardi di dollari. Il settore privato continua a faticare anche a causa della scelta di Xi Jinping di combattere l’“espansione disordinata del capitale” che ha portato il governo a reprimere alcuni settori esposti ai venti della globalizzazione (nel 2022, Alibaba, colosso dell’ecommerce, ha licenziato più di 10 mila dipendenti; Country Garden uno dei colossi immobiliari del paese ha licenziato 30.000 persone; la principale azienda cinese nel settore dell’istruzione, New Oriental, ha tagliato nel 2021 60 mila posti di lavoro). E ad agosto, come ha raccontato il New York Times, il governo cinese prima ha diffuso un dato scioccante sulla disoccupazione (nelle città il 21,3 per cento dei cittadini cinesi di età compresa tra i 16 e i 24 anni è disoccupato: si tratta più o meno dello stesso tasso di disoccupazione giovanile in tutto il medio oriente alla vigilia della Primavera araba). Poi ha deciso di sospendere la futura pubblicazione del tasso di disoccupazione giovanile nelle città. La dimensione della crisi cinese – crisi che rende l’uscita dalla Via della seta importante non solo per ragioni geopolitiche ma anche economiche: avere accordi con la Cina può essere vantaggioso, avere dipendenze con la Cina no – ha portato due giorni fa il Washington Post a dedicare un duro editoriale al tema (“Il modello cinese sta fallendo: il mondo dovrebbe prestare attenzione”) e la riflessione suggerita indica un punto di non ritorno.

  
Il problema vero, profondo, che sta colpendo la Cina non ha a che fare con le conseguenze dell’inflazione, non ha a che fare con le conseguenze del conflitto, non ha a che fare con le conseguenze delle sanzioni alla Russia, ma ha a che fare con una nuova consapevolezza che sta investendo il mondo. Essere un paese efficiente non è più una condizione sufficiente per generare affidabilità ed essere un paese dominato da un regime spietato, opaco, anti democratico, insofferente alle libertà, significa essere una minaccia per gli investimenti stabili. “I flussi di capitale globali – ha scritto a inizio agosto Goldman Sachs in un report dedicato a questo tema – si stanno allontanando dalla Cina a favore di altri mercati asiatici emergenti come India e Vietnam e gli investitori cercano alternative con minori rischi economici e geopolitici”. E’ possibile che la morte del modello cinese sia una notizia ampiamente esagerata, come direbbe forse Mark Twain. Ma è difficile non notare che di fronte a un rimescolamento poderoso degli investimenti mondiali, dettato da una convergenza progressiva tra difesa del mercato e difesa della democrazia, ci sarebbe una sola domanda a cui i paesi capaci di attrarre capitali e capitalisti coraggiosi dovrebbero rispondere: stiamo facendo abbastanza per rendere il nostro paese più attrattivo o stiamo invece perdendo troppo tempo a cercare di individuare in giro per il mondo colpevoli sui quali scaricare le responsabilità dei nostri fallimenti? Aprite i giornali di oggi, seguite il trend della campagna elettorale in vista delle europee e, almeno per quanto riguarda l’Italia, troverete facilmente la risposta a questa domanda.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.