Xi Jinping (Ansa)

Un foglio internazionale

"Il grande balzo all'indietro della Cina ormai è strutturale”, dice Baverez

Crescita agonizzante, esplosione della disoccupazione giovanile, deflazione, crisi immobiliare… Il punto su Pechino di un liberale. Scrive il Figaro (3/9)

Quest’estate è stata sanguinosa per l’economia cinese – scrive Nicolas Baverez. La progressione dell’attività economica si è limitata allo 0,8 per cento nel secondo trimestre, dato che non permette quest’anno di raggiungere l’obiettivo di crescita del 5 per cento. L’indice dei prezzi al consumo è diminuito dello 0,3 per cento a luglio, in piena inflazione mondiale.

La disoccupazione dei giovani è esplosa per raggiungere un tasso del 21,3 per cento, fatto che ha portato le autorità di Pechino a sospendere la pubblicazione dei dati. La Cina presenta dunque tutti i segni di un’entrata in periodo di deflazione. Il vuoto d’aria dell’economia cinese non è congiunturale bensì strutturale. Il modello economico dei “quarant’anni gloriosi”, che si basava sullo sviluppo delle imprese private e sulle esportazioni dei prodotti industriali verso i paesi sviluppati, è caduco. Il riorientamento verso il mercato interno e il fatto che  il Partito comunista abbia ripreso in mano l’economia si traducono in un crollo della crescita dal 9,5 al 3 per cento all’anno e in nessun incremento di produttività. Il crollo della popolazione attiva non permette più alla Cina di essere la fabbrica del mondo. 

 

La crisi è sia immobiliare che finanziaria. Le banche sono destabilizzate dalla moltiplicazione di linee di credito incerte. Il crollo dello yuan e la sospensione degli investimenti stranieri, ad eccezione, com’è noto, della Germania, dinanzi al rischio economico e geopolitico cinese, provocano una fuga massiva di capitali – più di 11 miliardi di dollari nel corso dei primi quindici giorni di agosto – così come il crollo della Borsa di Shangai. La Cina si trova dunque intrappolata dai paesi a reddito medio. E la colpa è soltanto sua. La fine del miracolo cinese non è dovuta alle sanzioni americane, ma alla virata politica e strategica effettuata da Xi Jinping, che associa ritorno al maoismo e culto della personalità, inasprimento ideologico all’interno e imperialismo all’esterno.  Il primato delle imprese pubbliche sul settore privato si traduce in un crollo dell’attività e in un blocco dell’innovazione.

Lo scontro contro le democrazie, sancito dal partenariato strategico con la Russia di Vladimir Putin, sfocia nello sganciamento dall’occidente: le importazioni americane in provenienza dalla Cina sono diminuite del 25 per cento nel primo trimestre e sono ormai superate dai beni provenienti dal Canada e dal Messico. Xi Jinping ha dunque metodicamente distrutto le fondamenta dei “quarant’anni gloriosi” cinesi. Ha messo in discussione il contratto sociale che permetteva di sviluppare liberamente l’attività privata a condizione di non mettere in discussione il monopolio del potere politico del Partito comunista. Ha sgretolato l’integrazione economica e finanziaria di Cinamerica, designando gli Stati Uniti come nemici. Ha fatto esplodere la globalizzazione, che aveva fornito il terreno e il vettore che hanno permesso alla Cina di emergere. 

 

Dinanzi allo sgretolamento della demografia e a una crescita molle, indissociabile da una disoccupazione elevata, XI Jinping si è rinchiuso nella negazione della realtà, rifiutando di attuare qualsiasi rilancio e qualsiasi piano di ristrutturazione del settore immobiliare, il cui crac è un veleno violento, ma lento. Aspira a compensare la stagnazione del reddito delle nuove classi medie con l’esacerbazione del nazionalismo e dell’imperialismo, avendo come obiettivo prioritario l’annessione di Taiwan. Il successo della rivolta delle città contro la strategia “zero Covid” mostra tuttavia che i cinesi non sono pronti ad accettare tutto e che il potere considerato assoluto di Xi Jinping può essere contrastato. I risultati della sua linea economica e diplomatica sembrano tanto disastrosi quanto quelli della sua politica sanitaria: solo Vladimir Putin è riuscito a fare peggio. La spirale deflazionistica dell’economia cinese è accompagnata in questo momento dal rinnovamento della potenza statunitense e dalla prospettiva di un’epoca d’oro dell’India di Narendra Modi, che vuole sostituirsi alla Cina come fabbrica dell’èra digitale e come leader del sud globale. 

 

Deng Xiaoping aveva lanciato le quattro modernizzazioni della Cina che porteranno alla sua rinascita dichiarando: “Non importa se un gatto è nero o bianco: finché catturerà i topi, sarà un buon gatto”. Nella Cina di Xi Jinping il gatto è per forza di cose rosso, ma non cattura più nulla. Bloccando lo sviluppo della Cina e risvegliando l’America, Xi Jinping passerà probabilmente alla  storia, accanto a Vladimir Putin che ha rovinato la Russia, ravvivato l’Europa e resuscitato la Nato, come il vero salvatore della democrazia e dell’occidente nel Ventunesimo secolo.

Saggista di orientamento liberale, Nicolas Baverez è editorialista del Figaro. Il suo ultimo libro è “La liberté est un combat: démocraties contre empires autoritaires”, uscito a marzo per le Éditions de l’Observatoire.
 

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