(foto Ansa)

i guai di pechino

L'economia cinese va malissimo, ma Xi non vuole indebitarsi

Mariarosaria Marchesano

Calo delle esportazioni, caos nel settore immobiliare e disoccupazione giovanile. La Cina fatica a risolvere i propri problemi economici e anche il debito non è un'opzione 

Il calo delle esportazioni cinesi ad agosto (meno 8,8 per cento), sebbene inferiore di qualche punto alle attese degli analisti, e la contrazione delle importazioni nello stesso mese (meno 7,3 per cento) sono solo gli ultimi dati che mostrano il progressivo deterioramento economico che sta logorando la leadership di Xi Jinping. Quest’ultimo, come si legge da alcune indiscrezioni del Nikkei, sarebbe stato preso di mira dagli anziani del Partito comunista, durante gli incontri a porte chiuse che ogni anno si tengono a Beidaihe, proprio perché non riesce a contrastare il declino economico del paese. E lunedì è stato annunciato che Xi non parteciperà al prossimo G20 delle principali economie globali. 

Il fatto è che la debole ripresa post Covid ha deluso tutte le aspettative al punto da spingere il decano degli strategist finanziari, David Roche – che per anni è stato il più apprezzato economista di Morgan Stanley e uno dei primi a capire l’importanza della Cina nell’economia globale – ad affermare che “il modello economico cinese si è arenato sulla spiaggia e non decollerà mai più”. Va detto che i mercati globali sono ancora lontani dal valutare il declino di lungo termine del paese asiatico. Ma ogni giorno gli investitori tengono sotto stretta osservazione il flusso di dati con il segno meno per cercare di prevedere le conseguenze sul resto del mondo di un tifone finanziario ancora molto silenzioso.  Per esempio, la valuta cinese quest’anno è scesa di quasi il 6 per cento rispetto al dollaro, nonostante gli sforzi messi in campo dalle autorità di Pechino per contrastare la tendenza. Il settore immobiliare è nel caos simboleggiato dal crac del grande costruttore Evergrande e dalle difficoltà di Country Garden. E il tasso di occupazione giovanile è peggiorato a tal punto che quest’estate le autorità cinesi hanno smesso di pubblicare i dati.  Tutte turbolenze economiche a cui sono seguite contromisure da parte del governo di Pechino che si sono rivelate inefficaci e hanno alimentato lo scontento della popolazione. Quello che si stanno domandando alcuni analisti è come mai tanta moderazione, se sia per mancanza di risorse o, al contrario, sia un segnale di saggezza politica volta a evitare un eccesso di stimoli, residuo di una politica del passato che ha finito per portare alla bolla che ora sta scoppiando. Alex Bienvenu, gestore del gruppo di investimenti francese La Financière de l’Echiquier, mette in evidenza un aspetto che pochi considerano: “I  mezzi di stimolo della Cina”,  dice in un’analisi, “sono oggi limitati a causa dell’indebitamento stratosferico seguito alla crisi globale del 2008, combattuta a suon di debiti contratti all’interno del paese e altrove”. L’indebitamento complessivo del paese è passato dal 160 per cento del pil nel 2008 al 360 per cento nel 2022, come ricorda Bienvenu: “Non si può pensare di aumentare ulteriormente questo già pesante fardello, soprattutto in un periodo di inflazione zero o addirittura negativa. Ma possiamo ipotizzareche la scelta di Xi Jinping di non aumentare troppo l’indebitamento rifletta un’ambizione a lungo termine. Ovvero, stabilizzare le finanze pubbliche, a livello locale soprattutto, a costo anche di affrontare una grave crisi immobiliare, fermandosi però a un punto di rottura sistemico”. Secondo un’analisi della Société Générale, le banche cinesi – in apparenza ben capitalizzate – dovrebbero essere in grado di far fronte a questa crisi. “Sarebbe una scelta rischiosa per l’autorità suprema, ma una salvezza forse a lungo termine. Soprattutto per chi probabilmente punta a essere rieletto alla fine del 2027”. 

In ogni caso, le conseguenze della crisi cinese non possono essere ignorate. Una Cina che si sta spopolando, la cui crescita scenderebbe strutturalmente al di sotto del 5 per cento (quest’anno crescerà del 5,1 per cento contro il 5,8 stimato a inizio anno), rappresenta un mancato guadagno per la crescita globale. Non ultimo per le industrie occidentali che contano sui consumatori cinesi. Allo stesso tempo, osserva sempre il gestore di La Financière, una Cina che fa meno faville potrebbe essere percepita come un concorrente meno pericoloso per il dominio americano e facilitare il confronto tra i due paesi. 

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