IL VERTICE

A Vilnius non si è fatta la storia, ma si è rifatta la Nato. Con un pezzo pregiato mancante

Micol Flammini

La Lituania accoglie Zelensky come una star e grida “Nato, Nato”. Il presidente ucraino oltre all’impegno militare chiedeva anche un coinvolgimento politico, che ieri è mancato e sarebbe stato un messaggio forte alla Russia

Vilnius, dalla nostra inviata. Vilnius corre, ma non fa la storia. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è arrivato nella capitale della Lituania e del summit grato per il supporto del paese baltico, ma con la sensazione che ancora una volta l’Alleanza atlantica l’abbia lasciato sull’uscio. Un cambiamento c’è stato, l’Alleanza è più larga, con l’ingresso della Finlandia e l’arrivo della Svezia. E’ più ricca, con la discussione sulle nuove spese militari. E’ più sorvegliata, con un nuovo contingente di difesa per il fianco orientale. Non è più in morte cerebrale, ma la nazione che ha risvegliato l’Alleanza  non ha avuto abbastanza, avrebbe voluto l’impegno politico a essere accolta in un futuro circoscritto da una formula temporale, seppur vaga come “a guerra finita”, o “dopo la vittoria”, invece, nell’esprimere il desiderio ad accogliere Kyiv tra i paesi membri, la Nato non ha voluto mettere limiti di tempo. Come suggerito già dagli Stati Uniti e dalla Germania, nella dichiarazione finale, l’Alleanza ha detto che prima sono necessarie le riforme, e soprattutto che l’invito ad aderire ci sarà “quando tutti i membri saranno d’accordo”. Zelensky ha appreso la notizia quando era in viaggio verso Vilnius, a insospettirlo sono stati due interventi: quello del presidente lituano, Gitanas Nauseda, che ha annunciato notizie positive per l’Ucraina e poi sarebbe stato contestato da alcuni collaboratori per aver creato delle aspettative inesatte. 

 

 E per quelle del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che nelle prime dichiarazioni alla stampa di ieri aveva già annunciato che il comunicato sull’Ucraina sarebbe uscito in giornata. Zelensky si è reso conto a quel punto che tutto era stato fatto: il futuro dell’Ucraina era stato deciso, ancora una volta,  in assenza dell’Ucraina. Aveva detto che non avrebbe partecipato a un summit che non sarebbe stato una svolta, ma ha deciso di andare lo stesso perché Vilnius lo aspettava su un palco nel mezzo di una piazza stracolma che lo ha ascoltato, ha cantato l’inno ucraino, ha gridato “Nato, Nato” e ha applaudito con forza quando ha detto che la bandiera dell’Ucraina “significa che non ci saranno più deportazioni dai paesi baltici alla Siberia, non ci saranno più spartizioni della Polonia, umiliazioni dell’Ungheria, carri armati a Praga e guerre d’inverno contro la libertà della Finlandia”. L’est ha trainato il cambiamento  della Nato, che però non si è immersa nella storia della Lituania, della Polonia, della Lettonia, dell’Estonia e nel presente dell'Ucraina.  Non ha aderito fino in fondo alla loro idea di sicurezza. Zelensky ha continuato: “Ho viaggiato fino a qui credendo in una soluzione, con fiducia nei nostri partner, in una Nato forte, una Nato che non esita, non perde tempo e non ha paura di nessun aggressore”. 

 

Il punto dieci della dichiarazione finale della Nato dice che gli alleati  “riaffermano l’impegno assunto al vertice di Bucarest del 2008 che l’Ucraina diventi membro della Nato, e oggi riconosciamo che il percorso dell’Ucraina verso la piena integrazione euro atlantica è andata oltre le necessità del Piano d’azione per l’adesione”. La caduta del Piano d’azione per l’adesione, il Map, era stata annunciata già lunedì, renderebbe il futuro ingresso più veloce, ma non è comparabile con il percorso velocizzato che è stato offerto alla Finlandia e alla Svezia. L’eccezionalità della situazione di Kyiv non corrisponde, per il momento, all’eccezionalità di una futura adesione alla Nato. Kyiv aveva paura che il summit fosse una nuova Bucarest, l’Alleanza si è impegnata a evitare il paragone, ma alla domanda se effettivamente sia un ritorno al 2008, in molti, vicini allo staff di Zelensky,  rispondono “quasi”. Le differenze con il 2008, il summit in seguito al quale la Russia invase la Georgia, ci sono e sono nelle premesse.  Simili sono invece le promesse, e i rischi che queste promesse non vengano mantenute.  

 

La strategia della Nato però è chiara, l’ha delineata Jens Stoltenberg, convinto che se l’Ucraina non vincerà non ha senso neppure parlare di adesione. Per cui, secondo l’Alleanza, il primo punto è fornire a Kyiv tutto quello che le serve per vincere, un impegno serio, forte e duraturo per riconquistare il territorio occupato e cacciare la Russia. Infatti, chi ieri si aggirava con soddisfazione per il Litexpo, il complesso in cui si tiene il summit, era invece il ministro della Difesa Oleksiy Reznikov, che ha firmato il memorandum che ratifica l’esistenza della coalizione per l’addestramento dei piloti di F-16, i caccia che Kyiv  ha chiesto a lungo per implementare la difesa aerea. Saranno undici gli stati che ne faranno parte, la coalizione è pronta e disposta a inserire altre armi nel pacchetto:  per un ministro della Difesa,  che pensa al fronte, questi impegni valgono molto. Valgono anche per il presidente Zelensky, che però, oltre all’impegno militare chiedeva anche un coinvolgimento politico, che ieri è mancato e sarebbe stato un messaggio forte alla Russia. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.