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verso il voto

Su cosa punta Erdogan per non dover lasciare la guida della Turchia

Claudia Cavaliere 

Con i suoi messaggi rivolti alla base conservatrice, nazionalista e religiosa il presidente nasconde i problemi economici creati dal suo stesso governo. A loro dice: votate me, sono il porto sicuro e con me il paese sarà forte e competitivo

Istanbul. Il 29 ottobre ricorrono i cento anni dalla nascita della Turchia moderna come Mustafa Kemal Ataturk l’aveva pensata: una repubblica, laica e aperta a occidente. Il presidente Recep Tayyip Erdogan nei suoi venti anni  al potere l’ha ridisegnata e votata a quello che lui vorrebbe fosse invece un faro alle porte del medio oriente, uno stato autoritario e  religioso che da poco più di un anno ha chiesto alla comunità internazionale di riconoscere come Türkiye, secondo la sua denominazione turca. “Questo nome rappresenta ed esprime nel modo migliore la cultura, la civiltà e i valori della nazione”, aveva detto il presidente nel dicembre 2021. 

Con i sui comizi e la sua strategia elettorale in vista del voto del 14 maggio è proprio alla base conservatrice, nazionalista e religiosa del Mar Nero e dell’Anatolia centrale che Erdogan si rivolge e che è ancora lo zoccolo duro del suo sostegno. “Non c’è nessuno migliore di lui. Se ha risollevato il paese una volta, può farlo ancora: la situazione economica non ci rende tranquilli, ma l’inflazione è alta in tutto il mondo, non è stato lui a determinarla e io continuo a sostenerlo perché porta il petrolio dal Mar Mediterraneo e il gas dal Mar Nero”, dice Hamza, proprietario di un negozio di alimentari del quartiere di Scutari, sul versante asiatico di Istanbul. Erdogan sfida le leggi dell’economia: mantiene i tassi di interesse molto bassi per alimentare la crescita vendendo riserve estere per sostenere la lira; sopprime il dollaro per dare l’impressione che il mercato stia andando bene; garantisce nuovi posti di lavoro e tiene la disoccupazione ai minimi; pompa denaro contante dalla Banca centrale che pure ormai risponde a lui. Inoltre, ha alzato il salario minimo a partire da gennaio da 5.500 lire turche a 8.500 – sono circa 400 euro e ne ha promesso un altro a luglio che sarà il più alto mai visto – e da martedì anche quello dei dipendenti pubblici per il 45 per cento. Non lo ha fatto per tutti: per esempio, lo stipendio di un professore universitario in proporzione non è salito tanto quanto quello di un operaio. Le politiche economiche di Erdogan stanno trasformando la maggioranza della popolazione in forza lavoro da paga minima, a danno della classe media che si restringe e che sostiene l’opposizione. 

Per il governo è questa la strada per rendere l’economia turca più competitiva. Tuttavia, il piano – che era cominciato quando al ministero delle Finanze c’era il genero di Erdogan, Berat Albayrak – è andato in cortocircuito: secondo i dati del ministero del Commercio, la Turchia registra il peggiore deficit commerciale di sempre con le esportazioni che hanno raggiunto sì un incremento record del 13 per cento con vendite per 254 miliardi di dollari nel 2022, ma il costo delle importazioni è salito del 34 per cento a 364,4 miliardi di dollari, il tasso di inflazione ufficiale è al 40 per cento, quello non ufficiale oltre il 100, e aver soppresso il dollaro ha creato un mercato parallelo di scambio a tassi normali che nel paese non si è mai visto in epoca recente. Anche gli investimenti diretti esteri sono molto bassi perché le imprese straniere non si fidano delle istituzioni, dei politici, delle banche: tutto può essere cambiato nel tempo della firma di un decreto presidenziale.

“Quando lo criticano per la sua agenda economica lo capisco perché non la consiglierebbe nessun esperto, ma politicamente quello che fa ha senso. Per quanto tempo è sostenibile? Non molto ed è per questo che Erdogan ha voluto le elezioni presto, aveva tempo fino a fine giugno ma ha scelto di anticiparle perché probabilmente sapeva che non avrebbe potuto proseguire con questo piano per cinque settimane. E’ terribile per il paese, rischioso, ma è un programma politico: si tratta di una strategia populista e i leader populisti a volte vincono. Ora nessuno risparmia niente, ma non si vota necessariamente contro un governo perché non si riesce a mettere dei soldi da parte”, dice Berk Esen, un ricercatore di Scienze politiche presso la facoltà di Arti e Scienze della Sabanci University incontrato dal Foglio. 

Per una settimana sul promontorio del Serraglio a Istanbul è stata attraccata Anadolu, la prima portaerei turca di costruzione nazionale; a Bursa il presidente ha inaugurato un impianto di sviluppo e produzione di batterie facendo un discorso sull’importanza di espandere industria, agricoltura, settore energetico e infrastrutture e la scorsa settimana ha fatto sapere che l’intelligence turca ha ucciso il leader dello stato islamico, Abu Hussein al-Qurashi, nel nord della Siria. Questi elementi servono per dire agli elettori patriottici: votate me, sono il porto sicuro e con me la Turchia sarà forte e competitiva. Ma queste sono anche elezioni parlamentari, un Parlamento che è svuotato di ogni effettivo potere dal 2017, ma dove Erdogan sta cercando di candidare i suoi alleati affinché, se dovesse perdere, possa avere almeno un’istituzione forte dalla sua.  La prima lezione che si impara qui è che “chi vince Istanbul, si prende tutta la Turchia” ed Erdogan l’ha già persa nel 2019. Se i sondaggi che lo danno alle spalle del principale sfidante Kemal Kiliçdaroglu dovessero essere confermati  e visti i precedenti come l’annullamento proprio dell’elezione per il sindaco di Istanbul di quattro anni fa, ora la domanda principale è: se perde, Erdogan lo lascia davvero il potere?

 

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