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verso il voto

Elezioni in Turchia, gli studenti chiedono progressismo e libertà religiosa

Claudia Cavaliere

Domenica 14 maggio voteranno circa tredici milioni di cittadini con meno di 25 anni. “Che accade se vince di nuovo Erdogan? Potrò ancora vestire come voglio?”, ci dice una delle studentesse nella capitale

Istanbul. Eylem Segil Kurada ha vent’anni, frequenta la Bogaziçi University e pensa che questa sia una elezione cruciale per il suo paese: “E’ vero che può sembrare che l’opposizione non abbia una visione chiara e noi potemmo sbagliare a sostenerli, ma se dovesse succedere, dopo avremo la possibilità di cambiare e farlo ogni volta che sentiremo di essere chiamati in causa per avere il meglio possibile. Non lo so cosa succederà dopo, ma mi spaventa meno di domandarmi: che accade se Erdogan vince di nuovo? Potrò ancora vestire come voglio e sentire il vento tra i capelli?”. Lei è una dei tredici milioni di cittadini turchi – circa un quinto dell’elettorato – che ha meno di 25 anni e che voterà alle prossime elezioni; di questi quasi la metà andrà alle urne per la prima volta.

Questa elezione si sta muovendo in due direzioni opposte e sempre meglio delineate man mano che ci si avvicina al voto: da una parte c’è la via tracciata dal presidente uscente che sta richiamando la sua base nazionalista e religiosa, soprattutto quella delle regioni più interne e conservatrici dell’Anatolia e del Mar Nero con lo slogan “L’uomo giusto, il momento giusto”. Quello della coalizione di sei partiti guidata da Kemal Kiliçdaroglu – che ha presentato se stesso come l’uomo della transizione, quello che rimetterà la Turchia in sesto e la consegnerà guarita ai giovani a cui appartiene – suona inclusivo e progressista, recita “Sana Söz”, significa “Ti prometto” e in piazza, nei comizi, sente domandare “Hak, hukuk, adalet”, legge, stato di diritto, giustizia, ma non tradisce la preoccupazione per le aspettative per il futuro, l’incertezza dell’aver messo insieme sei visioni diverse di un paese che raccorda Oriente e Occidente e il possibile disaccordo in seno ai partiti su questioni più grandi dell’estromettere Erdogan dal suo palazzo di oltre 1.000 stanze nel cuore della capitale. Il presidente uscente ha negli ultimi anni già perso tre delle principali città turche: Smirne, Ankara e Istanbul, dove, nel 2019 per non averne accettato il risultato, ha annullato le elezioni comunali che gli hanno consegnato una sconfitta ancora peggiore. “Poteva essere l’occasione per capire che stava tradendo la fiducia di quanti lo avevano sostenuto fino ad allora, ma sembra non avere imparato e questa volta potrebbe andargli peggio”, racconta Ali, ventitré anni, sostenitore deluso del partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdogan, che non voterà di nuovo. 

La maggior parte dei più giovani elettori vuole un altro presidente per non dover rinunciare alla propria libertà, per non essere manipolati e per poter avere la speranza di prendere in mano il paese che amano senza doverlo lasciare come hanno già fatto in molti. Ma è vero anche l’opposto: Zeynep Ozetci sosterrà il presidente uscente. “Io non voglio dover rinunciare al velo, non voglio non poter andare all’università o dover andare da qualche altra parte per sentirmi al sicuro”. Prima di lui vent’anni fa – quando Erdogan è salito al potere proprio col supporto dei conservatori religiosi – la discriminazione valeva al contrario: alle donne che indossavano il velo era vietato entrare nelle università e accedere agli uffici pubblici. Quel momento è impresso nella memoria dei conservatori religiosi più adulti, così come lo sono per i più giovani gli ultimi anni a partire dalla repressione delle proteste di Gezi Park del 2013, delle conseguenze del colpo di stato del 2016, dell’accentramento del potere nelle mani di un solo uomo con il passaggio dal parlamentarismo al presidenzialismo dopo un referendum nel 2017 e del controllo sui principi chiave della democrazia, elezioni libere ed eque, libertà di espressione e libertà di stampa. “Questo mostra che la Turchia si è secolarizzata come altri paesi dell’Europa occidentale. Non so come questo influenzerà il risultato delle elezioni, ma credo si possa dire che il paese sta attraversando una profonda trasformazione: è vero che lo stato è più religioso rispetto al passato, ma non è così per la società civile. Contrariamente alle affermazioni sull’islamizzazione della società, in Turchia questi sforzi negli ultimi vent’anni sono falliti: i tassi di preghiera sono diminuiti, le relazioni sessuali extraconiugali sono diventate prevalenti, il numero di moschee per persona è calato, la verginità è motivo di onore per un minor numero di persone, gli abiti si sono modernizzati”, commenta Volkan Ertit, professore associato di Sociologia dell’Università di Adana, sentito dal Foglio. 

La campagna elettorale ha preso colore solo nelle ultime due settimane prima del voto, mentre la Turchia piange i morti dei terremoti del 6 febbraio: prima nelle città non c’erano molti manifesti e striscioni, i comizi sono stati generalmente sottotono, molto di più rispetto ad altre tornate e molto meno di quanto ci si sarebbe aspettato per elezioni di questa portata. Quello che c’è stato è un episodio di intimidazione mentre il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, teneva un comizio nella città di Erzurum, roccaforte del partito Akp di Erdogan nell’Anatolia centrale, da parte dei sostenitori dei partiti al governo che hanno lanciato pietre sul bus elettorale, mentre il sindaco domandava: “Perché la polizia non fa niente e permette che questo accada?”. Un episodio che fa temere che la situazione possa diventare violenta anche prima del voto, e la ragione per cui molti hanno detto che, nonostante le critiche, il malcontento e la crisi, hanno paura di cambiare lo status quo. Mentre il presidente uscente punta tutto sull’identità, l’appartenenza religiosa e la produzione interna in economia, l’opposizione promette modifiche costituzionali per tornare a un sistema parlamentare, la restituzione del potere alle istituzioni, il rafforzamento dello stato di diritto, la stabilizzazione dell’economia e un’apertura verso occidente in politica estera. Anche Bilal ha vent’anni, è di Alessandretta – nella provincia di Antiochia, quella che ha subìto i maggiori danni dai terremoti di febbraio – e studia per diventare infermiere. Ha detto che voterà per la prima volta, ma non ha ancora deciso chi sostenere, vorrebbe qualcuno che avesse un piano per i giovani, ma non lo vede ancora e si chiede: perché devo studiare se non avrò un lavoro? Perché devo impegnarmi in qualcosa se nessuno si impegna per me?