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il ritratto

Chi è il “Gandhi turco” che può battere Erdogan

Mariano Giustino

Kemal Kiliçdaroglu è il candidato presidenziale comune dell’opposizione, che si è riunita nella più vasta coalizione della storia repubblicana turca. “Se ami, ami radicalmente”, è il suo slogan, che rappresenta la cosiddetta filosofia dell’Amore radicale alla base della nuova strategia comunicativa del Partito repubblicano del popolo

Ankara. La gioia del presidente Erdoğan e del suo alleato di estrema destra Bahçeli è durata solo 72 ore, il tempo necessario alla coalizione dei sei partiti d’opposizione per ricomporre la frattura provocata dal rifiuto della candidatura alle presidenziali di Kemal Kiliçdaroglu, presidente del Partito repubblicano del popolo (Chp), da parte di Meral Aksener, leader del Partito Buono (İYİ Parti).

La crisi, a poche settimane dal voto del 14 maggio, è stata dunque scongiurata. Kiliçdaroglu è il candidato presidenziale comune dell’opposizione, è lui l’uomo incaricato di rimuovere Erdogğan dal palazzo presidenziale di Bestepe, dove sembra essersi arroccato il politico più potente della Turchia. 

Il leader repubblicano, dall’apparente mitezza, è nato nel 1948 in un remoto villaggio della provincia di Dersim, l’attuale Tungeli, da una famiglia povera. Cosa spinge in questa titanica impresa l’uomo che da giovane camminava a piedi nudi indossando abiti pieni di buchi? Il suo luogo di nascita definisce la sua identità di curdo e di appartenenza alla religione alevita e questo ha condizionato fortemente la sua vita politica. 
La componente etnica curda e coloro che professano la religione alevita sono sempre stati perseguitati nella loro storia e, con la fondazione della Repubblica di Atatürk, le due minoranze furono costrette a celare la loro identità non turca e non sunnita. 

L’identità curda-alevita di Kiliçdaroglu è guardata con grande diffidenza e ostilità dai sunniti e dalla destra nazionalista ed è stato questo il fattore che aveva determinato il rifiuto della sua candidatura alle presidenziali del 14 maggio da parte della leader conservatrice Meral Aksşener, autorevole membro dell’alleanza del “Tavolo dei Sei”. 

Aksşener temeva di non riuscire a fare accettare alla sua base fortemente nazionalista la possibilità che un alevita, per giunta di una regione curda, assurgesse alla carica di presidente della Repubblica fondata da Atatürk sui princìpi del kemalismo – una ideologia, questa, il cui fattore fondante è la costruzione di una nazione con forte identità turca e sunnita. 

Dopo lo smembramento dell’Impero ottomano, Mustafa Kemal intendeva fondare uno stato-nazione assimilando il caleidoscopio di minoranze esistenti nella regione procedendo alla turchizzazione e alla sunnizzazione forzata. Furono quelli gli anni del massacro di circa 40 mila curdi-aleviti di lingua zaza, definito un etnocidio dalla stampa britannica nel 1938. 

Nessuno avrebbe mai immaginato che a presentare il candidato repubblicano sarebbe stato il presidente del Saadet Partisi, Karamollağolu, esponente dell’islam politico, sindaco di Sivas nel 1993, anno del pogrom in quella città contro gli alevi, e che accanto a lui vi fossero anche due leader ex compagni di Erdoğan e l’ultranazionalista Aksener, tornata a sedersi al Tavolo dei Sei dopo il raggiungimento di un compromesso che vede la presenza, al fianco di Kiliçdaroglu, di due eminenti figure politiche del Chp, ritenute più rassicuranti da Aksener. Si tratta del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu, e di quello di Ankara, Mansur Yavaş, candidati alla vicepresidenza, carica, questa, non elettiva, ma solo di nomina e dunque non incompatibile con la loro attività di sindaco. 

Ora la coalizione cosiddetta del “Tavolo dei Sei” ha serrato i ranghi e seppur costituita da partiti con visioni e ideologie diverse è accomunata da almeno tre obiettivi: sconfiggere Erdogğan alle elezioni; instaurare un processo di revisione costituzionale per il ritorno ad un sistema parlamentare rafforzato, per un ritorno al premierato e ripristinare lo stato di diritto e la libertà di espressione. 

Il Tavolo dei Sei comprende, oltre al Chp e all’IYIParti, anche partiti di recente costituzione formati da ex esponenti dell’Akp, dal Partito della democrazia e del progresso (Deva) di Ali Babacan, l’ex vice primo ministro e zar dell’economia turca dei primi governi Erdogğan, dal Partito del Futuro guidato dall’ex ministro degli Esteri, Ahmet Davutoğlu, dalla piccola formazione dell’Islam politico, il Partito della Felicità (Saadet Partisi) e dal conservatore Partito democratico (Dp).

Fuori dal “Tavolo di Sei” vi è l’Alleanza del lavoro e della libertà, costituita dal filocurdo Hdp, terzo partito per numero di parlamentari e da quattro piccole formazioni politiche extraparlamentari di estrema sinistra marxista. 
Quella con Kiliçdaroglu è dunque l’alleanza d’opposizione più vasta della storia repubblicana: include tutto ciò che è al di fuori dal bacino elettorale del presidente turco, compreso l’Hdp e la sua coalizione di sinistra, che fornirebbe un decisivo appoggio esterno. Contare per il proprio successo su una opposizione divisa potrebbe rivelarsi un errore fatale per Erdoğan e il suo alleato ultranazionalista Mhp, perché in realtà l’opposizione è molto coesa proprio nell’obiettivo di sconfiggerlo e di archiviare l’epoca del presidenzialismo dell’uomo solo al comando ripristinando il sistema parlamentare. 

Kiliçdaroglu è l’uomo politico del “Sakin Güç” (del Potere calmo). “Se ami, ami radicalmente”, è il suo slogan. Il leader repubblicano è l’uomo della cosiddetta filosofia dell’Amore radicale che è alla base della nuova strategia comunicativa del Partito repubblicano del popolo degli ultimi anni, ideata dal comunicatore Atesş Ilyas Basşsoy e adottata sin dalle elezioni comunali del 2019 per contrastare il “kibir’’, parola turca che significa “arroganza’’, “vanità’’, “alterigia’’, caratteristiche tipiche del presidente Erdogğan, che ha adottato sempre una retorica fortemente divisiva, polarizzante.

Questa nuova dottrina comunicativa del Chp è decisamente inclusiva e rispettosa dei diritti delle minoranze e dei diritti individuali, anche di quelli Lgbtq+, e ciò lo differenzia nettamente dal vecchio partito kemalista ed è il frutto dei cambiamenti iniziati nel 2010, quando Kemal Kiliçdaroglu prese il comando del più antico partito del paese traghettandolo dalle sponde dell’anacronistica ideologia kemalista alla socialdemocrazia e da allora in questa organizzazione rinnovata incominciò a farsi strada una nuova generazione di politici che adottarono un approccio comunicativo aperto a tutti e dialogante, sensibile ai diritti civili. 

Kiliçdaroglu, più che per la sua incredibile somiglianza col Mahatma, è soprannominato il Gandhi turco proprio perché è portatore di un messaggio dirompente in un paese come la Turchia ferito da profonde lacerazioni del suo tessuto umano e sociale. 

Adesso è l’Akp ad assomigliare al Chp dei vecchi tempi. Il partito di Erdoğan ha creato una propria élite, simile all’élite secolare del passato, che generò un grande risentimento in un’ampia parte della popolazione turca religiosa che aveva sempre visto in questo partito il potere che storicamente hanno avuto i militari e la gendarmeria, che impedivano agli studenti di studiare il Corano, che trasformavano le moschee in magazzini e impiccavano le persone che non indossavano copricapi in stile occidentale ed evocava in una parte significativa dell’elettorato curdo del sudest anatolico il sogno dei militari kemalisti dei primordi della Repubblica di una “Turchia senza curdi”. Ora che il Chp ha operato la sua “apertura curda”, ed è in grado di attrarre anche parte dell’elettorale conservatore, che non lo considera più una minaccia come avveniva in passato, la corsa alle presidenziali è più che mai aperta.

 

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