Kemal Kiliçdaroglu (Lapresse)

Verso il voto

I tre punti del piano di Kiliçdaroglu per far ripartire l'economia turca

Mariano Giustino

Il candidato dell’opposizione promette di ripristinare la fiducia dei mercati, in una Turchia nel pieno della crisi valutaria. Un compito difficile ma fondamentale per riavvicinare il paese all’occidente

Ankara. Il rivale di Recep Tayyip Erdogan, Kemal Kiliçdaroglu, candidato dell’opposizione alla presidenza della Repubblica, promette di ripristinare la fiducia dei mercati e “offrire nuove opportunità di investimento” al mondo esterno ponendo fine all’“erdoganomics”, la strategia con la quale il presidente turco sostiene che bassi tassi di interesse frenerebbero l’inflazione, in contraddizione con le teorie economiche ortodosse. Quella che vive oggi la Turchia è una classica crisi valutaria e dunque finanziaria-inflazionistica, causata da una errata decisione di politica monetaria e dalla perdita di fiducia da parte dei mercati nella Banca centrale che ha perso ogni sua autonomia. Il leader del Partito repubblicano del popolo (Chp), candidato congiunto dei sei partiti di opposizione che compongono l’Alleanza della Nazione, nel suo programma economico pensa che sia possibile raggiungere l’obiettivo di attirare 300 miliardi di dollari di investimenti in cinque anni e offrire nuove opportunità di investimento, inclusi strumenti finanziari come obbligazioni verdi, obbligazioni sociali e obbligazioni sostenibili.

 

I sondaggi indicano una serrata corsa alla presidenza tra i due maggiori candidati. Kiliçdaroglu in caso di vittoria, per estrarre l’economia dalle sabbie mobili sembra volersi avvalere dell'ex vice primo ministro Ali Babacan, zar dell’economia turca dei primi anni di potere del governo dell’Ak p di Erdogan, ora leader del Partito della democrazia e del progresso (Deva). L’inflazione alle stelle (oltre il 160 per cento), la spaventosa svalutazione della lira, l’alto costo della vita, la disoccupazione, l’aumento del disavanzo delle partite correnti, la mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo, sono i fondamentali di cui soffre da tempo l’economia turca ritornata ai livelli più bassi dal 1998. La Turchia nei primi anni del governo Erdogan era diventata una grande economia alle porte dell'Europa e una potenza regionale. Ora produce mobili, automobili, scarpe, televisori ed altri elettrodomestici; è il più grande esportatore mondiale di cemento, è un importante esportatore netto di prodotti agricoli, ha fatto notevoli progressi nelle energie rinnovabili e ha recentemente iniziato la produzione autoctona di un’auto elettrica. Gode di un’ampia base di produzione industriale, di un clima aziendale sofisticato e di una forza lavoro capace e istruita.

 

Nel 2010-11, quando vi fu la massima espansione dell’economia turca, fu definita la “Cina d’Europa”. L’Accordo di libero scambio del 1995 con l'Ue assicurava un’armonizzazione del quadro normativo di Ankara con quello europeo, ma poi tale accordo non è stato più implementato a causa della degenerazione dello stato di diritto. Tutto si arenò e dall’aspettativa di entrare entro il 2023 tra le prime dieci economie al mondo la Turchia ha registrato una contrazione del reddito pro capite e delle dimensioni della sua economia tanto da farla assomigliare di più all’Argentina d’Europa. Gli investitori, in particolare negli anni 2002-05, avevano riversato denaro e fatto investimenti diretti nel paese e le cosiddette Tigri dell’Anatolia, la nascente imprenditoria manifatturiera turca, avevano stimolato una crescita annuale a due cifre. Ma poi la politica ha fallito: la mancanza di riforme strutturali che avrebbero reso l’economia turca più solida e  la regressione democratica hanno contribuito a diffondere sfiducia negli investitori esteri.

 

Il sistema economico turco ha bisogno di capitali in ingresso per finanziare le sue importazioni, senza è costretta a intaccare le riserve valutarie. Inoltre, le opinioni del presidente sui tassi di interesse hanno devastato il sistema finanziario, mentre il suo governo personalizzato ha spaventato il capitale straniero e nazionale. Se l’opposizione dovesse vincere, avrebbe un compito difficile davanti a sé, ma ha maggiori possibilità di ancorare la Turchia all’occidente. Ankara affronterebbe forti venti contrari economici dopo le elezioni, ma potrebbe approfittare di un vento positivo del mercato che riacquisterebbe fiducia con la sconfitta di Erdogan. Ma il denaro caldo aiuterebbe solo a breve termine. Un governo Kiliçdaroglu dovrebbe ristrutturare profondamente l'economia turca. Gli economisti della coalizione come Ali Babacan, sanno bene che per stabilizzare i mercati, la Turchia dovrà invertire l’ “erdoganomics” e impegnarsi in una governance economica basata su regole che rispettino l’autonomia della Banca centrale. Sanno che la visione a lungo termine deve essere ancorata alla produzione. Ma le opportunità che si aprirebbero sono notevoli perché le economie statunitensi ed europee stanno cercando di ridurre un’eccessiva dipendenza dalla Cina e potrebbero percepire nella Turchia di Kiliçdaroglu un’opportunità.