Il miraggio del “sigillo del drago” sui film di Hong Kong

Priscilla Ruggiero

Per l’ex colonia britannica, un tempo l’Hollywood dell’estremo oriente, è l’ora delle pellicole vietate: il 2022 è stato l’anno della censura cinematografica

Tra le proteste scoppiate a fine novembre in  Cina a causa delle restrizioni da Covid-19, alcuni manifestanti gridavano anche alla libertà cinematografica: “Voglio vedere un film”, urla un giovane in un video che in quei giorni era diventato virale su WeChat. Ora che il Partito comunista cinese ha abbandonato la maggior parte delle misure di controllo della politica Zero Covid però, molti cinesi hanno deciso comunque di non andare al cinema. I dati del botteghino mostrano come il 2022 sia stato un anno pessimo per l’industria cinematografica di Pechino, nonostante le riaperture durante il periodo più remunerativo, quello del capodanno cinese. Il pubblico è stanco dei film patriottici tutti uguali su cui sembra invece puntare Xi Jinping, non vuole semplicemente andare al cinema ma vedere film degni del cinema cinese di quarant’anni fa, quell’età dell’oro  che ha raggiunto il suo picco negli anni ’80 e ’90. 

 

Lo stesso vale  per il cinema di Hong Kong,  un tempo acclamato e oggi sempre più minacciato dalla repressione del governo centrale di Pechino. Fino a pochi anni fa l’ex colonia britannica   era definita “l’Hollywood dell’estremo oriente”, con film di cineasti come Wong Kar-wai che ritraggono magistralmente una città in lotta per la propria identità dopo essere passata sotto il dominio della Repubblica popolare cinese nel 1997. Ma dopo l’ordinanza sulla censura cinematografica del 5 novembre 2021, Hong Kong è entrata nell’èra dei film vietati. Il 2022 per il porto profumato è stato l’anno dei film censurati, e di quei pochi film salvati viene ordinato ai produttori di modificare i contenuti politicamente sensibili.  Ottenere dalla China Film Administration il “sigillo del drago”, il sigillo di approvazione senza il quale un film non può essere né realizzato né proiettato in Cina è ormai sempre più difficile.

 

 Alcuni cineasti hanno rinunciato a sottoporre i film al vaglio, mentre altri hanno iniziato ad autocensurarsi. Soltanto una piccola minoranza ha deciso di rimanere in patria e “combattere il sistema” dall’interno, rischiando moltissimo: la legge sulla censura punisce le proiezioni non autorizzate con una pena di tre anni di carcere. Chan Tze-woon, il regista di Blue Island, che esplora il modo in cui le lotte politiche tra generazioni di abitanti di Hong Kong hanno plasmato la loro identità, ha deciso di non sottoporre il film al vaglio della censura. E’ stato nominato miglior documentario ai Golden Horse Awards di Taiwan, il secondo film hongkongese a vincere per due anni di fila, eppure non è mai stato mostrato nella città in cui è ambientato.               

 

Anche il regista Asgard Wong si è unito all’esodo all’estero. Si è trasferito in Germania in attesa che il suo film Time, and Time Again  venisse approvato. Il film racconta la storia immaginaria di una ragazza scomparsa di nome Yin Lam, un personaggio con un nome simile a una studentessa scomparsa durante le proteste del 2019 e il cui corpo è stato successivamente ritrovato in mare: è stato censurato dalle autorità perché poteva danneggiare la sicurezza nazionale. “Significa che non puoi più nominare un personaggio con quel nome”, ha affermato il regista. Wu Zi-en, regista taiwanese di Islander, dopo non essere riuscito a ottenere il sigillo del drago di Hong Kong per proiettare il suo film su un futuro immaginario di Taiwan sotto un dominio autoritario, ha deciso di caricare l’intero cortometraggio online.