(foto di Magda Ehlers da Pexels)

guerra e acciaio

La Russia ha da sempre cavalcato il mito siderurgico. E Putin ha trovato in Italia terreno fertile

Stefano Cingolani

L'acciaio per i russi, e per Putin, non è solo un mito, ma anche un veicolo di influenza geoeconomica. Le mosse in Italia degli oligarchi del metallo, dal caso Lucchini alla sorte di Ilva

L’abbiam portato via / dal Mausoleo. Ma come toglier Stalin / dagli eredi di Stalin?
Evgenij Aleksandrovich Evtušenko


Azovstal, l’acciaio di Azov, prende il nome dal mare su cui s’affaccia, dà il nome al battaglione assediato, ha offerto un rifugio nei sotterranei del labirintico stabilimento siderurgico tra i più grandi d’Europa. L’acciaio da almeno quindici secoli s’accompagna alla guerra: dalle daghe dell’India meridionale alle lame di Damasco, dalle spade di Toledo alle alabarde svedesi o alle fonderie di Sheffield. Quella lega di ferro e carbonio ha trasformato l’economia e con essa il mondo, ha esasperato la lotta di classe, ha esaltato il mito di un rivoluzionario russo diventato presto un autocrate paranoico e feroce.

 

Ebbene, l’acciaio da ora in poi sarà il simbolo di una delle più orrende tragedie di questo secolo che s’è annunciato molto presto alla storia come èra di morte e distruzione. Azovstal fu progettata nel 1930 insieme all’industrializzazione spinta e alla collettivizzazione forzata delle terre. Nel 1933 uscì la prima grande colata mentre l’esproprio dei kulaki in Ucraina provocava una delle più letali carestie della storia moderna, l’Holodomor, lo sterminio per fame. Milioni di morti, quanti esattamente ancor oggi non si è in grado saperlo, fino a dieci milioni secondo l’apposita commissione del Congresso americani, tre milioni erano bambini. Stalin inaugurò l’Azovstal, l’ultimo dei suoi eredi ora la riconquista. 

 

Nella Russia dei soviet l’acciaio era un mito, l’acciaio era il piccolo padre di tutte le Russie, l’acciaio era il grande dittatore, era Stalin. In realtà non sappiamo nemmeno oggi quando, come e perché Josif Vissarionovich Džugašvili scelse quello pseudonimo. Nella ricerca si sono cimentati fior di filologi e di storici. Soso il seminarista prese la maschera di Soselo il poeta e di Kobo il cospiratore, poi divenne Stalin, da “stal” come acciaio o da Stal come Lioudmila Nikolaevna, la rivoluzionaria ucraina nata Zaslavski, alla quale rimase legato?

 

Stalin inaugurò l’acciaieria Azovstal, l’ultimo dei suoi eredi ora la riconquista. Nel 1933 la prima colata, mentre i kulaki morivano di fame

 

“Era un appellativo semplice, privo di qualsiasi pretesa aristocratica, comprensibile per ogni lavoratore e, cosa ancor più importante, suonava come un vero nome russo”, scrive lo storico Vilyam Pokhlebkin nel suo libro “Il grande pseudonimo”. Una volta, durante la fase di registrazione del 4° congresso del Partito comunista, si presentò con lo pseudonimo più ovvio: Ivanovich, figlio di Ivan; lo stesso faceva Vladimir Il’ich Ul’janov che ha usato un centinaio di nom de guerre, ma è passato alla storia come Lenin, derivante da Lena, un fiume della Siberia, o forse da una donna o magari dal cognome su un passaporto falso. Anche in questo caso ci resta solo il gioco degli inganni che accompagna l’insondabile Russia. Trockij si chiamava Lejba Bronstein, Kamenev era Lev Borisovich Rosenfeld, Zinovev era Gregorij Evseevich Apfelbaum; non tanto per coprire il loro ebraismo in un paese antisemita, piuttosto per un mascheramento che noi chiameremmo pirandelliano.

 

Altra usanza molto diffusa consisteva nell’utilizzare pseudonimi a tema zoologico, spesso derivanti da nomi di animali terrestri, pesci e uccelli: un tentativo, evidentemente, per sottolineare certi tratti del carattere dell’individuo che li sceglieva. Ma tra tutti è stato l’acciaio a vincere nell’immaginario collettivo, soprattutto quando il potere di Stalin divenne assoluto in patria e nell’Internazionale comunista.

 

L’agonia di Mariupol è stata paragonata a quella di Stalingrado con l’esercito russo al posto della Wehrmacht hitleriana. Ma allora le divisioni dell’Armata rossa arrivarono a spezzare l’assedio, oggi non c’è nessuna armata ucraina a chiudere l’anello (la controffensiva sovietica venne chiamata Operazione anello) per bloccare il massacro. Le truppe di Putin intimano la resa al manipolo di combattenti del battaglione Azov, come fece il generale Georgij Konstantinovich Žukov con il feldmaresciallo Friederich Paulus. Il comandante tedesco alzò bandiera bianca sfidando la volontà del Führer, il quale gli aveva ordinato di morire sul campo. Oggi Michail Pirog, che guida il manipolo di resistenti, sembra essersi ispirato a Vasilij Ivanovich Chujkov, il quale si ostinò a rimanere tra le rovine contro ogni ragionevole dubbio. La storia non si ripete, semmai s’è messa a testa in giù.

 

Non solo per la Russia staliniana, anche per quella putiniana l’acciaio ha una funzione strategica: insieme al metano è la leva di un’espansione economica e politica nell’Europa occidentale e, così come con il gas, ha trovato in Italia l’anello debole della catena occidentale. Ma cominciamo da Azovstal e dal suo proprietario, l’oligarca Rinat Akhmetov. Nato nel 1966 a Donetsk (è proprietario della squadra locale, lo Shakhtar, che tanto filo da torcere ha dato alle squadre italiane incontrate nei campionati europei) di origine tatara e religione musulmana sunnita, è considerato l’uomo più ricco del suo paese. Ha sempre manifestato posizioni filo russe sostenendo il Partito delle regioni, ma quando nel 2014 la Repubblica di Donetsk si è proclamata indipendente, buona parte dei suoi beni è stata espropriata: il suo patrimonio è crollato da 18 a 4 miliardi di dollari e lui ha cambiato bandiera, ora promette che Mariupol sarà comunque ucraina e s’impegna per la ricostruzione.

 

Azovstal è dell’oligarca Rinat Akhmetov di Donetsk, filorusso fino al 2014, quando buona parte dei suoi beni è stata espropriata

 

L’acciaieria fa parte della holding Metinvest da lui controllata. Prima della guerra fatturava 13 miliardi di euro e produceva oltre 9 milioni di tonnellate di acciaio grezzo esportato in Europa dal porto di Mariupol. Il mercato più importante era l’Italia, dove il gruppo ha due filiali per un totale di 500 dipendenti: la Trametal di San Giorgio di Nogaro a Udine (500.000 tonnellate di acciaio per 850 milioni di fatturato nel 2021) e la Ferriera Valsider di Oppeano a Verona (650.000 tonnellate tra lamiere e coils). In queste fabbriche arrivavano i semilavorati che poi vengono laminati e rivenduti come prodotto finito dal centro servizi di Genova (altri 60 dipendenti). Ogni anno sbarcavano circa 2 milioni di tonnellate di bramme, Metinvest riforniva anche la Marcegaglia (700 tonnellate) e la Tecnosider (350 tonnellate). Secondo i tecnici si tratta di materiale di prima qualità che esce da un altoforno come quello dell’Ilva a Taranto. Il trasporto marittimo veniva gestito dalla triestina Fratelli Cosulich con sede operativa a Genova. Il legame s’è fatto più stretto e la dipendenza più importante da quando la siderurgia italiana è stata messa in ginocchio con un’impressionante successione di sciagurati eventi che collega il collasso della Lucchini all’attacco concentrico contro l’Ilva di Taranto.

 

La recente storia del secondo polo siderurgico italiano, quello di Piombino passato dalla Finsider dell’Iri a Lucchini nel 1992, è un caso da scuola di guerra economica: è lo scontro per l’egemonia siderurgica in Europa che passa per l’Italia. Siamo nel 2005 quando il 16 febbraio Alexej Mordashov, considerato l’uomo più ricco della Russia, che negli anni di El’cin si era impadronito del gruppo siderurgico Severstal, appare ai giornalisti al fianco di Giuseppe Lucchini figlio del cavalier Luigi detto il re del tondino. Nel salone dell’Hotel Principe di Savoia annunciano in pompa magna il matrimonio tra la Lucchini e la Severstal. “E’ un primo passo di una strategia europea globale”, proclama l’oligarca russo che ha in mente di diventare il numero uno in Europa.

 

A Piombino il sindaco di sinistra Gianni Anselmi commenta con amara ironia: “La gente di qui ha aspettato per generazioni la bandiera rossa con la falce e martello, invece sventola sulle ciminiere quella degli zar”. Le nozze sono in realtà una vendita alla quale Lucchini viene costretto per non finire soffocato dai debiti. Il consorte russo era stato convinto dalla banca francese Paribas che l’azienda italiana era un buon partito e soprattutto un trampolino di lancio verso una operazione di ben maggior respiro.

 

In Francia l’Arcelor, vero gigante europeo con 45 milioni di tonnellate di acciaio e un fatturato da 30 miliardi di dollari, è in vendita. Il pretendente principale viene dall’India, si chiama Laksmi Mittal. Guida un gruppo da 58 miliardi di dollari presente anche negli Usa, e lancia un’offerta pubblica d’acquisto finanziato dalle banche d’affari anglo-americane. Mordashov non sta a guardare, presenta la sua controfferta mettendo sul piatto le miniere degli Urali, le acciaierie russe e la Lucchini che con i suoi approdi consente di collegare il Mediterraneo al Mar Nero e al Mar d’Azov. A maggio sembra fatta, Giuseppe Lucchini annuncia: “Mordashov mi ha chiamato, è tutto ok. Diventeremo i soci di riferimento”. Invece l’operazione fallisce, anche per il voltafaccia di un finanziere ben noto a Brescia per i suoi rapporti con Giovanni Bazoli, il banchiere che sulle rovine del Banco Ambrosiano ha poi costruito Intesa Sanpaolo: stiamo parlando di Romain Zaleski – franco-italiano di nobiltà polacca, famiglia di intellettuali combattenti anti-nazisti –, diventato l’azionista più forte di Arcelor. “Un po’ di geopolitica non avrebbe fatto male agli analisti e ai tifosi della cordata italo-russa”, commenta Ugo Calzoni che negli anni 90 è stato al fianco di Luigi Lucchini, nel libro intervista con Franco Locatelli intitolato “Imperi senza dinastie”. E spiega: “Si poteva fare finta di nulla di fronte alla nascita di un colosso mondiale dell’acciaio dall’Atlantico al Pacifico, da Lisbona a Vladivostok, tutto in mani russe?” .

 

Arcelor finisce a Mittal, la Lucchini continua ad andare male, l’acciaieria di Piombino viene palleggiata tra varie filiali cipriote della Severstal che vuole venderla e non riesce. L’azienda resta oberata di debiti e non decolla. Produce soprattutto binari ferroviari, ma per rilanciarla occorre spendere molti miliardi e una volta persa la battaglia per Arcelor a Mordashov non interessa più, tanto che è disposto a perdere mezzo miliardo di euro pur di cederla. Nel 2012 la Lucchini è in amministrazione controllata, due anni dopo a Piombino arrivano gli algerini di Cevital, nel 2018 gli indiani della Jindal, l’anno scorso è tornato il capitale di stato con Invitalia al fianco dei privati come a Taranto. Che tra l’altro, nel 2013 poteva finire finire anch’essa in mani russe. Era solo una chiacchiera, e nel cordiale incontro tra Enrico Letta, allora capo del governo, e Vladimir Putin non se ne fece parola. A quel punto, infatti, la strategia era cambiata e l’Italia era diventata un puro sbocco per l’acciaio da esportare.

 

La recente storia di Piombino è un caso da scuola di guerra economica: lo scontro per l’egemonia siderurgica in Europa passa per l’Italia

 

La crisi dell’Ilva ha fatto parte del gioco. L’arrivo di Arcelor-Mittal poteva scombinare tutti i piani, ma per fortuna dei russi il complesso politico-mediatico-giudiziario italo-pugliese ha bloccato persino il più grande gruppo siderurgico mondiale. “Honi soit qui mal y pense”. La storia si arricchisce di un altro aspetto davvero centrale. I capitali per le operazioni in Europa occidentale vengono da Cipro, come ormai è noto. Ma poco si è riflettuto su una circostanza chiave: nel 2004 la Repubblica di Cipro entra nell’Unione europea e quattro anni dopo nella moneta unica, il paradiso fiscale si europeizza, i fondi del Kgb e degli oligarchi (molte decine di miliardi) vengono tramutati in euro e dal Cremlino parte una direttiva, un ukaz: riciclarli in imprese europee. Non c’è solo Mordashov ma Gennady Timchenko il principe del nickel, Alishev Umanov re delle materie prime, e ancora Vladimir Potamin, Mikhail Prokorov, Dimitri Ribolovlev. 

 

 

Abbiamo ascoltato per anni le geremiadi sulla colonizzazione francese, sul predominio tedesco, sul risparmio italiano risucchiato dalle banche americane, intanto gli stessi profeti di sventura spalancavano volentieri le porte agli oligarchi e agli emissari putiniani. Non si tratta solo di ville e di vigne, di alberghi e di yacht. Prima del 2014 quando vennero imposte le pur blande sanzioni in seguito alla guerra nel Donbas e all’annessione della Crimea, c’erano 53 imprese italiane in mani russe, molte nel settore metallurgico, con 11 mila dipendenti e un fatturato di quasi cinque miliardi di euro. Il modo prevalente per penetrare, nell’80 per cento dei casi, è stato l’acquisto da soli o insieme a soci locali. E non si tratta solo di piccole operazioni.

 

Prendiamo Mikhail Fridman, l’oligarca proprietario dell’Alfa Group, con un patrimonio di 13 miliardi di dollari che diventa proprietario di Wind. O Victor Vekselberg, 52 anni, capo del colosso russo Renosa che ha comprato la bresciana Energetic Source (stimata intorno ai 100 milioni di euro) rinominata Eviva, una delle prime società a entrare nel mercato libero del gas. Nel 2007, ha acquistato personalmente per 40 milioni di euro il Grand Hotel Villa Feltrinelli, sul lago di Garda, poi la nuova Darsena di Rimini, un porto commerciale costruito pochi anni fa e destinato agli yacht. Roman Abramovich e Alexander Abramov con l’Evraz Group avevano assunto il controllo della friulana Palini & Bertoli, specializzata in lamiere in acciaio di alta qualità. Nel 2019 l’hanno ceduta al gruppo Marcegaglia.

 

La fortuna dei russi: sull’Ilva, il complesso mediatico-giudiziario italo-pugliese ha bloccato persino Arcelor-Mittal

 

Meno fortuna ha avuto in Sardegna Oleg Deripaska, nono uomo più ricco al mondo, quando ha messo le mani su Eurallumina: nel marzo 2010 la produzione però è entrata in crisi e gli operai in cassa integrazione. I russi infine hanno puntato anche sul calcio e sulla logistica. Nel 2008, la As Roma era nelle mire di Suleiman Kerimov, azionista proprio di Gazprom, oltre che di Sberbank e Polymetal. L’imprenditore miliardario tentò di acquistare la squadra con la sua Nafta Moskva, per poi tirarsi indietro improvvisamente. Voleva non solo la squadra, ma soprattutto le quote che la famiglia Sensi aveva nei porti di Civitavecchia e Gioia Tauro. In quello stesso periodo, esattamente tra il 2005 e il 2006 si strinse attorno al collo il cappio di Gazprom.

 

Tanto lontano ci porta la tragedia di Mariupol e della sua acciaieria. O meglio tanto vicino perché la storia di come l’Internazionale putinista ha trovato in Italia terreno fertile e sostegno trasversale dall’estrema destra all’estrema sinistra, dalla Lega di Salvini all’Anpi di Pagliarulo, è ancora tutta da raccontare. Non sappiamo se, quando e fino a che punto si farà luce sulla rete del Cremlino, la guerra non favorisce la ricerca del vero, la politica fa velo. Ma comunque vada a finire in Ucraina, nulla sarà come prima.

 

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