Il senso di Mariupol in sei immagini

La città che non esiste più resiste, sfianca gli uomini di Putin e i suoi piani in Donbas. A luci spente  

Paola Peduzzi

Sessanta giorni fa, sui media locali di Mariupol si parlava dell’imminente invasione dei russi, delle truppe al confine, della necessità di difendersi ma c’era ancora spazio per le discussioni sui problemi di questa città portuale affacciata sul Mar Nero, con la sua industria pesante che inquinava moltissimo ma garantiva una disoccupazione ai minimi storici, e l’orgoglio per i prodotti della terra, i girasoli ovviamente, ma anche le viti che avevano iniziato a produrre uva per vini che tentavano di farsi strada nel mercato internazionale. I filmati della vigilia della guerra mostrano le famiglie alle giostre, bambini con i loro cappelli colorati con il ponpon  che sfidavano il freddo e si rotolavano nel grande parco del centro della città, con le luminarie sugli alberi e sui palazzi e il fiume Kalmius a dividere in due la città, maestoso come soltanto i fiumi nelle città riescono a essere.

 

Tutta l’Ucraina è irriconoscibile dopo due mesi di guerra, ma Mariupol non è più nemmeno definibile una città: aveva quasi mezzo milione di abitanti per la metà russofoni e l’impianto siderurgico che ora è il teatro dell’ultimo assedio dei russi – Vladimir Putin ha chiesto ieri al suo ministro della Difesa di sigillare l’acciaieria, l’Azovstal, “non deve poter uscire nemmeno una mosca” – produceva quattro milioni di tonnellate di acciaio l’anno, impiegava migliaia di persone, era uno dei punti più riconoscibili della città dal mare e da terra, e faceva litigare tutti perché, appunto, era molto inquinante. Quella era la normalità di Mariupol, una normalità vigile: nel 2014, quando Putin invase per la prima volta l’Ucraina, Mariupol era un suo obiettivo. Basta guardare la cartina per capire il perché, è anche la stessa ragione per cui oggi l’esercito russo ha deciso di radere al suolo la città, di uccidere e deportare migliaia di persone, di conquistare un luogo morto: è il collegamento dalla Crimea al Donbas, l’unica possibilità di creare un ministato russo dentro al grande stato ucraino. 

 

Abbiamo per anni avuto una percezione deformata di quel che era accaduto nell’est dell’Ucraina. Ancora oggi diciamo sbrigativamente che Mariupol allora era stata attaccata ma aveva resistito. Nel maggio del 2014, ci fu uno scontro nella parte nord della città tra le forze separatiste appoggiate dai russi arrivate dalla repubblica autoproclamatasi di Donetsk e le forze di Mariupol. All’inizio prevalsero i separatisti, che provarono ad annettere a Donetsk una piccola porzione della città, ma poi le forze locali ebbero il sopravvento. Tornò la calma, ad agosto i separatisti provarono di nuovo l’assalto, questa volta dalla parte orientale dalla città, ci furono altri scontri ma a settembre fu siglato un cessate il fuoco: fu violato qualche volta, ma poi resse. Anche qui: queste violazioni, che poi sono diventate su più larga scala la “guerra a bassa intensità” dell’est ucraino, fecero sì che il nord-est di Mariupol restasse militarizzato e in allerta, e i cittadini fossero pronti a infilarsi nei bunker in qualsiasi momento. Nel gennaio del 2015, dalla repubblica autoproclamata di Donetsk fu lanciato un missile che colpì Mariupol e uccise trenta persone. Un’inchiesta del sito investigativo Bellingcat dimostrò che l’attacco fu pianificato e organizzato da comandanti in servizio attivo presso il ministero della Difesa russo: identificò nove funzionari russi, tra cui un generale, due colonnelli e tre vicecolonnelli russi direttamente coinvolti nell’attentato.  Nel 2018 iniziarono le schermaglie sul Mar Nero: navi mercantili bloccate, consegne ritardate, guerra commerciale. 

 

Questa è stata l’attesa di Mariupol: era il piano a di Putin nel 2014, è il piano b di Putin nel 2022 e probabilmente per molto tempo non ci sarà altro appuntamento con i russi. Perché Mariupol non esiste più: è stata bombardata, distrutta, messa sotto assedio, ridotta alla fame. Ci sono almeno venticinquemila morti, i russi portano cadaveri in grosse fosse comuni con i camion, i corridoi umanitari ufficiali non si sono mai aperti, ci sono state molte iniziative private che hanno portato in salvo centinaia di persone, ma di molti non si hanno più notizie. Eppure Mariupol resiste. E’ incredibile ma resiste. Se scorrette i titoli dei giornali troverete nelle ultime tre settimane molto spesso titoli sulla capitolazione di Mariupol. Nessuno pensa che possa resistere ancora a lungo, e Putin ha già annunciato la sua oscena parata per la vittoria anche  in questa città rasa al suolo per il 9 maggio. Ma ogni giorno, ogni ora che Mariupol resiste non è un martirio fine a se stesso, non è la bella morte in battaglia. Finché Mariupol non è conquistata, una decina di battaglioni russi devono stare lì a governare attacchi e assedio e non possono andare in Donbas. Ma questi battaglioni, una volta liberati dal fronte di Mariupol, saranno stremati, ogni giorno che passa è un giorno in cui sono più stremati. Andranno sostituiti, e si sa che se c’è una cosa in cui i russi hanno grandi difficoltà è proprio il reclutamento e l’organizzazione del capitale umano – avendo un disprezzo innato per l’umanità tale attività diventa ancora più cinica. Mariupol sta condizionando la guerra in Donbas, la guerra di Putin, la sopravvivenza dell’Ucraina – a luci spente. 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi